giovedì , 7 Novembre 2024

Tra disastri e opportunità, gli sviluppi della guerra in Siria

di MASSIMILIANO TRENTIN

Siria tra disastri e opportunitàMa tanto i morti sono sempre i loro morti.

Assalti Frontali, Baghdad 1.9.9.1.

L’accordo del 14 settembre 2013 tra Russia e Stati Uniti d’America per l’adesione della Siria al Trattato di Bando delle armi Chimiche e il conseguente smantellamento dell’arsenale del Paese arabo sembra aver scongiurato un attacco militare di Washington, Parigi e dei loro alleati medio-orientali contro il regime di Damasco: regime accusato di aver utilizzato queste armi contro la popolazione civile e i ribelli dei sobborghi di Damasco, il 21 agosto 2013.

Il 13 settembre il Segretario Generale delle Nazioni Unite, il sud-coreano Ban Ki Moon, ha ricevuto e pubblicizzato i risultati del lavoro d’inchiesta della commissione ONU presente a Damasco con il compito di verificare l’utilizzo di armi chimiche nei diversi teatri di guerra del Paese. Il report ha confermato l’utilizzo di queste armi nei sobborghi di Damasco e la Commissione si appresta a indagare anche il resto dei casi in questione. Resta ancora da chiarire in modo altrettanto inequivocabile chi siano i responsabili dell’attacco con armi chimiche in una zona urbana che è da tempo teatro di duri scontri armati tra ribelli ed esercito regolare, ma che vede ancora la presenza di molti civili: e infatti, la maggior parte delle vittime dell’attacco sono ancora civili inermi. Sebbene il report delle Nazioni Uniti non abbia indicato in modo chiaro i responsabili, la ricostruzione delle armi utilizzate e delle traiettorie dei missili puntano verso le postazioni dell’Esercito regolare, o delle sue milizie. Il governo di Damasco e la Russia negano con forza tale possibilità e attribuiscono la responsabilità ai ribelli, ma si affaccia anche la possibilità di una mossa autonoma da parte di forze lealiste che miravano all’escalation del conflitto o alla destituzione dello stesso Asad: cioè a un colpo di Stato interno al regime. Ma qui si entra nelle speculazioni da complotto, sebbene manchi ancora una spiegazione ragionevole e strategica sul perché il regime abbia deciso di compiere un atto così pericoloso e denso di pesanti, e prevedibili, conseguenze per la sua sopravvivenza. La semplice brutalità o sete di vendetta non bastano a spiegare.

A questi eventi segue il lavoro della diplomazia in sede ONU per la redazione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che legittimi l’accordo russo-statunitense e lo integri nel sistema di ispezioni, verifiche e conseguenze previste dai Capitoli VI o VII della Carta ONU. L’accordo prevede la presentazione entro una settimana della lista dell’arsenale chimico-batteriologico siriano e del suo stoccaggio, e il suo smantellamento entro la metà del 2014 con la supervisione delle Nazioni Unite: termini questi improbabili sia per la difficoltà tecnica dello smaltimento di queste armi (è più di dieci anni che USA e Russia stanno eliminando i rispettivi arsenali) sia per il fatto che ancor oggi la Siria è un Paese in guerra in cui le aree controllate dal regime e in cui si trovano i suoi arsenali sono vicine al, se non addirittura esse stesse, teatro di scontri armati con i ribelli. E le formazioni più radicali dei ribelli sono anch’esse dotate di piccole armi del genere, ed è molto probabile che le abbiano utilizzate in alcuni scontri dei mesi precedenti come espresso in via preliminare da osservatori internazionali, affatto simpatetici con il regime di Damasco. Nel frattempo, con un giorno di anticipo, Damasco ha inviato all’ONU l’elenco del suo arsenale secondo quanto pattuito.

I negoziati per inserire la risoluzione ONU sotto il Capitolo VI o VII non sono mero tecnicismo giuridico o diplomatico: il Capitolo VII prevede e legittima le sanzioni internazionali e l’uso della forza militare qualora lo Stato in questione (la Siria) non adempia ai termini della risoluzione. Anche se la nuova risoluzione non prevede in modo esplicito l’uso della forza, il precedente libico mette legittimamente in guardia Russia, Cina e altri Paesi dall’utilizzo dello stesso Capitolo VII: infatti, i Paesi NATO e le petrol-monarchie del Golfo non si sono fatte scrupoli per forzare l’interpretazione della risoluzione contro la Libia, rovesciare il regime e ucciderne il leader Mu’ammar Qadhafi.

Non a caso, fin dall’inizio del conflitto in Siria nel febbraio-marzo 2011, i dirigenti politici degli stessi Paesi hanno invocato il precedente libico per intervenire in Siria: «responsability to protect» (R2P), «crimini di guerra», «crimini contro l’umanità», il Tribunale Penale Internazionale sono tutti strumenti del diritto internazionale che, purtroppo, sono stati usati finora quasi esclusivamente contro soggetti e forze politiche certamente autoritari e brutali nei confronti dei rispettivi cittadini, ma che si frapponevano anche ai progetti e alle politiche dei Paesi Nato e dei loro alleati. A fronte dell’impunità di violazioni macroscopiche del diritto internazionale e della Carta ONU come le guerre aeree in Serbia nel 1999 o di occupazione in Iraq nel 2003, per non parlare delle politiche israeliane in Palestina e in Libano. In politica internazionale la giustizia non è uguale per tutti e le gerarchie di potere continuano a pesare nelle pratiche delle relazioni internazionali.

Gli ultimi tasselli di un quadro molto complicato sono la proposta di «pace» avanzata dal Presidente siriano Bashar al Asad con cui si dice disposto a mettere fine alle ostilità e intavolare negoziati con le opposizioni, escluse quelle fondamentaliste. Qui l’obiettivo è capitalizzare il momento politico per legittimarsi presso le opinioni pubbliche e le diplomazie estere in vista di un possibile negoziato internazionale (Ginevra II) ma anche delle elezioni presidenziali comunque previste per il 2014.

L’altro fattore è costituito dalla posizione dell’Iran, guidato oggi dal solito Ali Kamenei e dal nuovo Presidente Rohani. Con le sue aperture nei confronti degli Stati Uniti d’America, quest’ultimo sembra voler forzare l’impasse ormai decennale per cui la soluzione negoziata sia del dossier nucleare sia della guerra in Siria non possono essere risolte senza il coinvolgimento attivo e riconosciuto della Repubblica Islamica: riconoscimento che riguarda anzitutto Washington, ma che passa anche per Tel Aviv.

Dare senso compiuto e trovare una direzione inequivocabile al conflitto che orami da due anni sta devastando la Siria è alquanto difficile. Sicuramente la crisi «chimica» del 21 agosto ha modificato la situazione precedente che vedeva il regime di Damasco conquistare alcune città e roccaforti prima in mano ai ribelli. La superiorità negli armamenti di cui ancora gode l’esercito siriano deve comunque fare fronte alla relativa scarsità di truppe e alla maggiore efficacia dei ribelli islamisti, meglio equipaggiati, addestrati e foraggiati rispetto alle fasi precedenti del conflitto. La strategia del regime di Damasco consisteva nel recuperare tutti i territori attorno alla capitale Damasco e nel corridoio che la lega verso nord a Homs, Hama, fino alla costa sul Mediterraneo. Da lì, forse con l’appoggio passivo o attivo delle milizie curde del nord-est della Siria, l’esercito siriano avrebbe mosso guerra alle città di Aleppo e Idlib, e alle campagne circostanti da cui proviene il grosso delle milizie ribelli.

Già prima dello scoppio delle rivolte nel febbraio 2011, Bashar al Asad aveva richiamato in servizio alcuni vecchi esponenti del regime che devono aver riportato al vertice del regime quella prospettiva «lunga» che ha sempre contraddistinto le mosse di Damasco: serrare i ranghi in tempi di crisi, giocare appieno il fattore «tempo» per sfiancare la determinazione dei rivali e fomentare le divisioni al loro interno, riconquistare le posizioni perdute e aprire dei negoziati da una posizione di forza relativa; il tutto nell’idea di avere sufficienti truppe e risorse materiali per sostenere una strategia di sopravvivenza di medio e lungo periodo.

Il recente recupero militare del regime della primavera-estate 2013 era stato amplificato dalle continue difficoltà delle forze di opposizione nel trovare un minimo comun denominatore di unità che non sia la semplice caduta del regime. Intanto, le milizie islamiste radicali esercitano la leadership militare sul campo, ma si scontrano talvolta con le resistenze della popolazione che abita le zone da loro controllate e con le altre formazioni armate che fanno capo all’Esercito Siriano Libero (Free Syrian Army, FSE). È recente la condanna da parte della Consiglio Nazionale Siriano (Syrian National Coalition, SNC), cartello delle opposizioni all’estero, delle formazioni islamiste che, a loro volta, hanno costituito una nuova «alleanza» islamista che comprende tra i gruppi armati più numerosi e potenti dei ribelli: questo nuovo cartello si pone in contrapposizione con l’Esercito Siriano Libero, la Consiglio Nazionale Siriano, la Coalizione Nazionale e il governo in esilio in via di formazione. Se regge nel tempo, questa nuova formazione islamista potrà avere conseguenze importanti per lo sviluppo del conflitto: da due poli (regime e opposizione) si passerebbe a tre (regime, opposizione non-islamista, opposizione islamista). Tuttavia, sul campo i ribelli armati delle diverse fazioni hanno preferito collaborare tra loro contro il regime piuttosto che combattersi a vicenda, con l’obiettivo primario e comune della «caduta del regime», costi quel che costi.

È difficile pensare che chiunque sia il responsabile dell’attacco con le armi chimiche nei sobborghi di Damasco non abbia considerato le conseguenze assolutamente prevedibili del suo atto: bloccare, rallentare, se non invertire il senso di marcia preso dal conflitto nella primavera-estate del 2013. L’attacco con armi chimiche è stato una chiara sfida alla «linea rossa» posta da Washington come discriminante per un suo intervento diretto in Siria e, sebbene non possano essere risolutivi, gli attacchi aerei USA e NATO infliggerebbero comunque un duro colpo alle capacità militari di Damasco, soprattutto a quelle dell’aviazione che è un fattore essenziale nella strategia dell’esercito regolare. Forse nella speranza che questo fosse già avvenuto, le milizie islamiste hanno attaccato alcune roccaforti e luoghi simbolici del sostegno, attivo o passivo, al regime: il paesino di Ma’alula, abitato sia da musulmani sia da cristiani, non troppo lontano da Damasco e meta di pellegrinaggi, e i villaggi a ridosso di Lattaqia e Qardaha, luogo natale degli Asad e in cui si concentrano molte delle comunità confessionali alawite.

Infine, la condanna unanime e universale della comunità internazionale e delle opinioni pubbliche arabe ed estere non poteva che discreditare i responsabili dell’uso di queste armi. La guerra in Siria si svolge anzitutto sul piano militare ma anche su quello mediatico, in cui i ribelli godono di un’indubbia superiorità grazie al sostegno della maggioranza dei media occidentali e del Golfo. Tuttavia, la copertura mediatica della guerra in Siria era scemata a causa del colpo di Stato in Egitto e della seguente sconfitta dei Fratelli Musulmani al Cairo. Inoltre, emergevano forti le immagini e i reportage sulle formazioni islamiste radicali presenti in Siria, sui crimini da loro commessi e sugli scontri interni ai ribelli armati. Un atto tanto spettacolare quanto terribile ha riportato la questione siriana al centro dell’attenzione mondiale.

Come detto, le prove fin qui raccolte sull’attacco del 21 agosto sembrano attribuire la responsabilità al regime di Damasco che, però, smentisce in modo risoluto e, assieme all’alleato russo, accusa le formazioni ribelli e i loro sostenitori (leggi in primis Arabia Saudita). L’Iran si limita a condannare chiunque abbia utilizzato le armi chimiche, memori delle migliaia di soldati iraniani uccisi dai gas lanciati dall’esercito iracheno durante la rovinosa guerra Iran-Iraq (1980-1988): armi usate con la copertura degli allora alleati occidentali.

Il successivo accordo russo-statunitense e il blocco, temporaneo, degli attacchi USA sembrano costituire un buon compromesso per tutte le parti coinvolte, tanto che sia Mosca sia Washington e Damasco sono corse ad attribuirsene il merito, dandone la loro interpretazione. Ciononostante, a fronte della possibilità effettiva che gli USA conducessero un attacco militare, l’esser riusciti a imporre una soluzione diplomatica costituisce tradizionalmente un successo per la parte più «debole»: sul piano internazionale, strategico e mediatico è il regime di Damasco a ricoprire questa posizione. E tuttavia, sempre Damasco risultava essere al momento la parte più «forte» sul piano interno, e qui l’accordo non può considerarsi altrettanto un successo.

Da un lato, infatti, Damasco e Mosca possono rivendicare di aver evitato un’escalation del conflitto dagli esiti imprevedibili. Inoltre, con il rispetto della prima scadenza sulla messa in sicurezza del suo arsenale, Damasco conduce un’offensiva politica e mediatica a tutto campo per rilegittimarsi a livello internazionale e capitalizzare a suo favore le apprensioni occidentali e arabe contro le formazioni jihadiste che operano effettivamente tra i ribelli in Siria. Il prezzo pagato da Damasco, però, è molto alto. Le operazioni militari continuano su tutti i fronti, ma l’esercito regolare ha dovuto rallentare l’offensiva militare volta a riconquistare le posizioni perdute nel sud e nel centro della Siria. A questo punto, come ha affermato il lealista e vice-premier Jamil Qadri, nessuna delle parti in campo sembra in grado di prevalere in modo decisivo. Ma soprattutto, il regime ha abbandonato una delle carte tradizionali della sua dottrina di deterrenza contro Israele: per quanto vecchio e obsoleto, l’arsenale chimico-batteriologico di Damasco serviva da deterrente contro le armi nucleari e chimiche tuttora possedute da Tel Aviv e contro un possibile attacco condotto via terra da parte di Israele (le alture del Golan occupate da Israele nel 1967 distano qualche decina di chilometri dai sobborghi di Damasco). Da questo punto di vista, se la Siria smantellerà il suo arsenale come previsto, Israele non potrà che ringraziare e gioire di una vittoria ottenuta senza aver sparato un colpo, direttamente. Intanto hanno dato il via alle prospezioni per la ricerca di combustibili fossili nelle alture del Golan, in sfregio del diritto internazionale. A questo punto lo Stato israeliano rimarrà l’unica potenza in tutto il Medio Oriente e Nord Africa ancora dotata di armi di distruzione di massa.

Da parte sua la Russia è riuscita a svolgere con successo una mediazione diplomatica molto difficile e dunque a recuperare un ruolo internazionale offuscato da decenni e sfidato apertamente dall’intervento NATO in Iraq prima e in Libia poi. Lo stesso Iran ha ufficialmente offerto un’apertura diplomatica nei confronti del «grande Satana» statunitense per essere riconosciuto parte ufficiale della soluzione alla crisi in Siria. Infine, l’amministrazione democratica di Obama è uscita da una situazione assolutamente pericolosa: un altro intervento militare in Medio Oriente, i cui tempi ed esiti sono tutt’altro che scontati, rallenterebbe il ridispiegamento statunitense dalla regione verso il Pacifico e distrarrebbe altre risorse dal rilancio economico interno[1].

Il ruolo dell’Arabia Saudita e della sua intelligence costituisce oggi una delle incognite più importanti per ricostruire l’effettivo svolgimento degli eventi: durante un incontro a giugno con il Presidente russo, Vladimir Putin, il capo dell’intelligence saudita, principe Bandar al Sultan, era convinto di rovesciare il regime siriano o quantomeno di riportare in equilibrio i rapporti di forza militari senza lasciare spazio ai vicini qatarioti e turchi. A oggi, l’obiettivo di prolungare l’impasse militare è stato raggiunto. Tuttavia, la convinzione per cui «non c’è modo di evitare l’opzione militare, perché attualmente è l’unica scelta disponibile, considerando che la situazione politica si è risolta in uno stallo» sembra essere stata smentita proprio dai nuovi movimenti diplomatici in corso.

Chi invece, sembra, aver subito una sconfitta sono le forze che sostengono fin dalla prima ora la necessità di un intervento militare: la strana alleanza tra Gran Bretagna, Francia, Qatar e Turchia che, anzi, sono stati superati dalla diplomazia russo-statunitense secondo le dinamiche che ricordano i tempi della Guerra Fredda. La sconfitta cocente subita dall’interventista David Cameron nel Parlamento britannico ha ricordato ai governanti occidentali, e forse anche turchi, come la grande maggioranza dei loro cittadini e parte dei loro rappresentanti istituzionali si siano espresse chiaramente contro l’ennesima avventura militare all’estero. Sicuramente, molto deluse sono le formazioni dell’opposizione siriana che speravano nell’intervento della NATO e degli USA per riprendere l’iniziativa politica e militare. Sfiduciati, molti miliziani sono attratti dai finanziamenti, dalla disponibilità di armi e dall’efficacia in combattimento delle forze radicali islamiste.

La guerra in Siria è un conflitto che si gioca su diversi piani, e forse è per questa ragione che risulta impresa ardua trovare una soluzione politica minimamente condivisa e che apra a una fase costituente: tanti e troppi sono i soggetti in campo che aspirano ancora ad una vittoria «totale» e all’eliminazione politica se non fisica dei rivali. Da un lato, la condanna semplificatoria dei «terroristi» e del «complotto straniero» da parte del regime appiattisce una realtà ben più complessa in cui, oltre alle ingerenze straniere e ai jihadisti giunti da tutto il mondo, rimane forte l’elemento «popolare» delle rivolte. Dall’altro lato, le rivendicazioni di libertà, dignità e cittadinanza (ossia di costruzione di una Siria «nuova» e democratica) si sono appiattite sullo slogan della «caduta del regime» a causa della militarizzazione del conflitto politico, ponendo così in secondo piano i temi della libertà e della giustizia e finendo tra le braccia di formazioni e sponsor che tutto sono tranne che «democratici»[2].

Intanto, la guerra in Siria non smentisce la prassi moderna per cui sono i civili a patire il grosso delle perdite e delle sofferenze: le stime più recenti parlano di oltre due milioni di rifugiati all’estero e di quasi sette milioni di persone costrette ad abbandonare le loro case; oltre 110mila sono le vittime accertate; le relazioni tra comunità religiose e confessionali si sono deteriorate in modo simile a quanto avvenuto in Iraq o nel Libano della guerra civile; le infrastrutture e i servizi pubblici sono ridotti al minimo facilitando la ricomparsa e la diffusione di malattie infettive ormai debellate da tempo; eccezione fatta per il contrabbando e il traffico di persone e armi, le attività economiche sono ridotte all’essenziale. Tutte ragioni che sono largamente sufficienti a sostenere quelle iniziative volte a porre termine immediato alle ostilità e soprattutto a riportare il conflitto nelle sue dimensioni politiche, sociali e anche istituzionali nelle quali le forze democratiche possano tornare a far sentire la propria voce.

Sia all’interno del Paese sia all’esterno, le forze che dopo oltre due anni sperano ancora di ottenere la vittoria assoluta o giocano la strategia del logoramento portano la responsabilità umana e politica della tragedia siriana. Per questi tornano qui in mente le parole degli Assalti Frontali, nella canzone Baghdad 1.9.9.1: come fosse un fatto normale quotidiano, lontano vicino e poi così lontano, finché i morti saranno solo i «loro» morti. Porre precondizioni su chi possa o meno partecipare ai colloqui di pace di «Ginevra II» equivale oggi a prolungare la guerra, le cui conseguenze sono patite anzitutto dai civili inermi.

 


[1] Si legga e in particolare l’ottimo articolo di Eugenio Dacrema, La Siria e l’accordo sulle armi chimiche: chi vince e chi perde, 25 settembre 2013, e le analisi presenti sul dossier Siria: verso l’azione militare? del 29 agosto, a cura dell’Istituto Studi di Politica Internazionale (ISPI)

[2] Si confrontino le posizioni degli oppositori Bassma Kodmani e Felix Legrand in Empowering the democratic resistance in Syria, Arab Reform Briefs, Settembre 2013, Arab Reform Initiative, e quelle minoritarie ma comunque interessanti di Michel Kilo, Syrian Revolution Should Emphasize Freedom, Assafir, 23 settembre, 2013.

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