martedì , 19 Marzo 2024

Sul «diritto a governare» e il fallimento del progetto neoliberale cileno

di BRAULIO ROJAS CASTRO

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Da quando il governo imprenditoriale di Sebastian Piñera detiene il potere, abbiamo sentito ripetere come una litania, ripresa a profusione dai mezzi di comunicazione, lo slogan «abbiamo diritto a governare». Lo ha detto il deputato Katz non appena salito al governo, lo ripete fino allo sfinimento la ex ministra dell’educazione Cubillos, quando la si accusa non solo di non implementare la riforma educativa approvata dal Congresso durante il governo precedente, ma anche di usare fondi pubblici per una massiccia campagna di delegittimazione di quella stessa riforma. Si rivendica, a sostegno di questo «diritto a governare», la legittimità democratica derivata dal 54,58% dei voti al ballottaggio, che aveva portato Piñera al potere, omettendo però l’astensione del 50,98% della totalità dei votanti. Si esige che l’opposizione permetta al governo di governare, cioè di applicare un ulteriore radicamento del sistema neoliberale. Alcuni intellettuali liberali esigono il rispetto per le istituzioni, e accusano l’opposizione di ostruzionismo, o addirittura di totalitarismo e di «golpismo», per tentare di bloccare le riforme che precarizzano la vita dei cittadini e delle cittadine. Esigono il diritto di governare burlandosi delle proteste delle persone che hanno visto una sistematica violazione dei loro diritti sul lavoro, sociali e politici precarizzare le loro stesse vite.

E tuttavia, questo «diritto a governare» si è fondato su mere dichiarazioni che riguardano fatti inesistenti, che non sono né saranno mai reali. Affermazioni come «Saremo il miglior governo della storia del Cile», o «Abbiamo un impegno senza riserve nel sostenere i diritti umani» sono tipiche di una retorica semplificatrice che però, grazie alla macchina mediatica posta al servizio degli interessi del padronato neoliberale, che ne è il proprietario, produce effetti concreti: una vera e propria «industria di creazione della realtà». In tal senso, Piñera e i suoi accoliti hanno ripreso continuamente questo genere di affermazioni, che promosse e reiterate scimmiescamente dai mass media, e affiancate dall’uso degli apparati di repressione, hanno permesso loro di manipolare i conflitti in atto, trattandoli come se fossero dei problemi riguardanti una delle loro aziende. Di questo tenore è stato, ad esempio, lo spettacolo della ricerca e dell’acquisto di respiratori, presumibilmente «meccanici», al mercato nero cinese da parte della Camera della Produzione e del Commercio (il sindacato dei padroni), che alla fine non soddisfacevano gli standard necessari per il loro utilizzo in situazioni critiche; oppure il trasferimento di diversi milioni alle banche a un tasso dello 0,5%, successivamente negoziato da queste ultime con la clientela a tassi superiori al 3,0% suggerito come tetto dal Governo; o ancora l’uso dei risparmi dell’Assicurazione sul TFR pagati dai lavoratori e dalle lavoratrici per pagare tre mesi di sospensione dei contratti, con lo squallido espediente dell’«impegno» da parte del datore di lavoro, basato sulla sua buona volontà, di riassumere i lavoratori alla fine della crisi.

In ogni caso, questo atteggiamento retorico, fondato sulla forza mediatica dei suoi enunciati e delle sue dichiarazioni, è giunto a un punto morto. La politica gli è letteralmente scoppiata in faccia, e Piñera e il suo gabinetto non hanno potuto fare altro che intensificare il carattere autoritario del regime, cercando di amministrare una distribuzione delle risorse che però non è riuscita a placare la rabbia sociale. La massa è diventata moltitudine organizzata, per quanto ancora in forma dispersa e disorganica, e ha sviluppato una certa intelligenza «da sciame»[1], che la spinge a manifestare e ad esigere migliori condizioni di vita, giustizia e dignità. Il governo, impaurito dalle mobilitazioni sociali ripartite nel marzo di quest’anno, guidate nuovamente dagli studenti delle scuole superiori – e che nonostante siano state duramente represse hanno mostrato che la potenza della rivolta del 18 ottobre non si era esaurita – ha preferito un approccio di pubblica sicurezza piuttosto che uno medico-sociale e di prevenzione per la popolazione, militarizzando il paese e sottoponendo la popolazione a un’inutile repressione e coercizione sociale.

Il recente trionfo nel plebiscito ‒ che ha avuto una partecipazione del 50.90% degli aventi diritto al voto (contro il 49.02% del ballottaggio che ha eletto Piñera), e che ha visto il 78.72% delle preferenze per l’approvazione di una nuova costituzione, e il 78.99% di quelle per attivare una Convenzione Costituzionale come meccanismo per la redazione della nuova carta a partire da zero ‒ può essere interpretato come un punto di svolta nella frattura dell’ordine politico ed economico neoliberale. Questo non soltanto per le quasi 500.000 persone che non avevano partecipato al processo elettorale precedente e lo hanno fatto ora – cosa comunque significativa – ma anche perché accade in una votazione effettuata all’interno di uno stato di eccezione costituzionale, con il coprifuoco e la militarizzazione di molti quartieri e territori. Inoltre la gestione opaca della pandemia da parte del governo ha prodotto misure messe in discussione dall’OMS, come l’«immunità di gregge», la manipolazione delle cifre del contagio, il numero di decessi, la scarsa attuazione del campionamento e la scarsa tracciabilità; più in generale, è aumentata la precarizzazione della popolazione, mentre il governo dà milioni di profitti alle imprese private, speculando con la vita e il benessere della popolazione. E nonostante tutto questo, il trionfo dei cittadini è stato travolgente.

D’altra parte è necessario chiarire che questo ottimismo deve fare i conti con la consapevolezza di una sconfitta politica: la richiesta che si esprimeva nei canti e nelle grida della piazza era quella di un’Assemblea Costituente popolare e cittadina, nella quale convergessero tutti i processi di organizzazione popolare e l’esercizio dell’autonomia politica, territoriale, culturale e di autodifesa, che si è mobilitata nella storia delle classi subalterne cilene: una richiesta espressa nello slogan del «potere popolare» che riemergeva nelle marce. Questa richiesta è stata tradotta quando è stata prodotto con una firma trasversale l’«Accordo per la pace sociale e la nuova costituzione» da parte della maggioranza dei partiti politici – con l’eccezione del Partito comunista cileno, del Partito umanista e della Convergenza sociale (Partito creatosi di recente, di tendenza autonoma), e di qualche altro gruppo minoritario – il 15 novembre 2019. «Questo accordo, elaborato a porte chiuse dai partiti che hanno una rappresentanza parlamentare, non ha considerato in nessuno dei suoi momenti di discussione le voci provenienti dai cittadini, che venivano emergendo dalle diverse richieste politiche e sociali che cercavano di modificare gli effetti del neoliberismo nella precarizzazione della vita di tutti, esigendo quindi la creazione di un’assemblea costituente che destituisse il totalitarismo neoliberale».[2]

È necessario assumere e riconoscere che, aldilà del «tradimento» delle richieste di una destituzione della normalità neoliberale, in una negoziazione dalla quale non è possibile sperare nulla di significativo a proposito di una radicale trasformazione delle attuali condizioni di dispotismo economico nel quale viviamo, non c’è stata sufficiente forza politica e insurrezionale per imporre la volontà della moltitudine scesa nelle strade. Le ragioni di ciò devono essere oggetto di una riflessione teorica e di una discussione strategica, per riarticolare le forze sociali e politiche dell’opposizione. Inoltre, mi sembra che questa congiuntura ponga la necessità di una discussione sulla legittimità della richiesta di una nuova Costituzione, poiché c’è il rischio di trasformare l’atto costituzionale in un feticcio, considerandolo come l’espressione diretta della potenza istituente del popolo. D’altra parte, occorre chiedersi perché c’è bisogno di una costituzione,[3] dal momento che è lo Stato a reclamare un quadro normativo come la costituzione per poi violarla, come affermava Diego Portales, il vero padre della nazione fascista cilena[4].

Quello che deve seguire ora è un’agenda elettorale serrata per l’anno 2021: elezioni di sindaci, consiglieri, e per la prima volta dal ritorno alla democrazia, dei governatori regionali, finora nominati dall’esecutivo. Inoltre, in tale votazione saranno eletti i costituenti (155) che redigeranno la nuova Costituzione. Nel 2022 si terranno le elezioni presidenziali e il plebiscito per l’uscita della nuova Costituzione, con il quale i cittadini dovranno approvare o respingere il testo della Carta fondamentale. Come si può notare, il processo politico è stato cooptato dalla struttura istituzionale dello Stato, il che può solo significare l’addomesticamento della potenza politica della rivolta. Però, al medesimo tempo, sono in corso discussioni e mobilitazioni politiche e sociali attorno ai temi più urgenti e sensibili per una discussione costituente: l’accesso all’acqua e alle risorse naturali come un diritto salvaguardato dallo Stato; l’educazione, la salute, la previdenza sociale come diritti sociali; il sistema delle quote riservate alle etnie originarie. Finora la forza delle mobilitazioni non ha dato i suoi frutti; il controllo popolare di questo processo dipenderà dal grado e dai livelli di organizzazione popolare e dalla capacità di sostenere le mobilitazioni di piazza. I dadi sono ancora in aria e nulla si è ancora ottenuto. La lotta va avanti.

[1] Cfr: Hardt, Michael & Negri, Antonio. Multitud. Guerra y democracia en la era del Imperio. Barcelona: Debate, 2004, pp. 120 e ss.

[2] Soto García, Pamela & Rojas Castro, Braulio. “La paz y el cuerpo político”, in C. Berrios y G. Jara (eds.), Contrapuntos Latinoamericanos. Doce ensayos políticos-filosóficos para problematizar el continente. Valparaíso: Ediciones Inubicalistas, 2020, p. 15-31, in particolare pp. 15-16.

[3] Cfr: Rojas Castro, Braulio. “¿Para qué una constitución? El conflicto entre la fuerza destituyente y el poder constituyente del pueblo”. In AA.VV:, Arde. Acción Revolucionaria De Escritorxs. Libro colectivo por el Apruebo Constituyente. s/d, 2020, p. 292.

[4] Diego Portales Palazuelos (1793-1837), politico conservatore utilizzato come simbolo dalla dittatura di Pinochet, scrisse in una lettera nel 1834: «So che con o senza la legge, quella signora che chiamano Costituzione deve essere violata quando le circostanze sono estreme. E che importa se ciò accade, quando in un anno questa bambina lo è stata così tante volte, proprio a causa della sua perfetta inutilità».

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