martedì , 19 Marzo 2024

[ebook] Da Occupy Wall Street a Black Lives Matter. Movimenti – scioperi – politiche

di FELICE MOMETTI

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Quando la catena del tempo viene spezzata,
quando il passato non rischiara più l’avvenire
e quando l’avvenire non giustifica più il presente

Daniel Bensaïd

 

Movimenti sussultori. È questa probabilmente l’immagine che rende meglio la dinamica dei movimenti sociali che hanno attraversato la società americana negli ultimi dieci anni. Forti scosse telluriche che investono verticalmente un sistema sociale che ha scarsi o inesistenti margini di mediazione politica e istituzionale. Sollevazioni che trovano i loro punti di innesco in singoli eventi, spesso imprevedibili, ma che hanno come retroterra dei processi sociali che riguardano condizioni di lavoro, di genere e di vita. Condizioni che, nel caso degli afroamericani e dei latini, sono marchiate da uno strutturale razzismo istituzionale. Così è avvenuto oggi, nel 2020, con la l’uccisione di George Floyd e la rivolta che ne è seguita. Così era successo agli inizi dell’ottobre del 2011, dopo i 700 arresti durante una manifestazione sul ponte di Brooklyn, atto di nascita del movimento Occupy. Eventi e processi che, nella loro combinazione, mettono in forma la produzione di soggettività, i percorsi politici e i luoghi del conflitto. In cui vengono anche alla luce le fratture con le memorie e i modelli organizzativi del passato, la ricerca di nuove modalità di azione e comunicazione, le espressioni di un protagonismo sociale che si svincola sia dalla rappresentanza istituzionale sia da un’ideologica rappresentazione politica. Occupy Wall Street fu un movimento molto eterogeneo. A New York, ad esempio, solo in pochi casi riuscì a essere qualcosa di più di un contenitore di soggetti individuali e collettivi e uno strumento per favorire e amplificare le lotte nello spazio urbano della metropoli. Diverso il caso della West Coast, soprattutto nel triangolo San Francisco, Oakland, Berkeley, dove Occupy è stato al tempo stesso un movimento sociale, un soggetto politico, un luogo di socializzazione e di diffusione di stili di vita, uno strumento del conflitto di classe nei luoghi della produzione e della riproduzione sociale. Come sempre hanno avuto un peso storie, esperienze e contesti ma, ancor di più, il modo di rileggerli e reinterpretarli alla luce delle trasformazioni del capitalismo contemporaneo. E, se c’è un tratto distintivo del capitalismo americano, esso si vede nel continuo rivoluzionamento degli assetti e dell’organizzazione.

Uno dei temi centrali che ha impegnato tutto il movimento Occupy, dal punto di vista della discussione e dell’iniziativa, è stato lo sciopero generale. La legislazione federale, aggravata da quella di molti Stati, lo vieta prevedendo sanzioni che possono arrivare al licenziamento e all’arresto. Tra il novembre 2011 e il maggio 2012 con lo sciopero generale di Oakland, il blocco dei porti della West Coast e lo sciopero generale del primo maggio, Occupy ha messo in discussione norme e regole dell’ordine costituito, ha contestato i rapporti tra sindacato e potere politico e ha costruito un conflitto che ha riguardato intere aree metropolitane. In questo modo, ha superato la scissione tra i soggetti che praticano gli scioperi ‒ esprimendo comportamenti radicali ‒ e organizzazioni che pensano di avere il monopolio della proclamazione e della gestione delle forme di lotta, com’è invece accaduto nelle vicende contrattuali delle grandi fabbriche automobilistiche. In altri termini si era posta di fatto, non sempre in maniera consapevole, la questione del rapporto tra una composizione di classe e le proprie forme organizzate. È su questo scoglio che il movimento Occupy si è definitivamente arenato, anche se non va sottovalutato il peso della risposta repressiva dei vari apparati dello Stato su input dell’establishment politico-istituzionale.

This ain’t yo daddy’s civil rights movement («Non è il movimento dei diritti civili di papà»). Questa frase, declinata in varie maniere e pronunciata in differenti contesti, riassume in modo lapidario la diversità di Black Lives Matter rispetto alla stagione della lotta dei diritti civili degli afroamericani negli anni ’60 del secolo scorso. La rivolta di Ferguson nell’agosto del 2014, esplosa per l’uccisione di Michael Brown da parte della polizia, segna il passaggio di Black Lives Matter da hashtag di Twitter o profilo di Facebook a spazio sociale di soggettivazione e di riconoscimento reciproco senza mai, però, diventare uno strumento organizzativo. Migliaia di afroamericani uccisi dalla polizia negli ultimi anni mostrano come il razzismo istituzionale sia più un elemento connaturato al funzionamento «normale» degli apparati dello Stato e di molte istituzioni pubbliche piuttosto che l’espressione di un suprematismo bianco che certamente esiste ed è diffuso, ma che non incide con la stessa profondità di norme, regole, procedure, politiche economiche, leggi che in modo «impersonale» definiscono i rapporti sociali. La polizia, o meglio le polizie ‒ perché sono organizzate e gestite a livello cittadino ‒ si sono progressivamente conformate a delle tattiche militari nelle modalità di intervento e nell’uso di armi, mezzi e tecnologie: «da combattenti di guerra a combattenti del crimine», come dice uno slogan di un sindacato della polizia.

Le rivolte di questi ultimi anni a Brooklyn, Ferguson, Baltimora e del movimento sociale nato dalle proteste per l’uccisione di George Floyd sono state gli ambiti di affermazione di soggettività che spesso esprimono una soluzione di continuità con il passato. Non esistono più gli stessi legami all’interno delle comunità nere e latine, le medesime reti territoriali di supporto; ci sono linee di frattura che in questi anni hanno agito in profondità tra un settore giovanile e il resto della popolazione urbana a partire dal lavoro, dalla scuola e dall’esistenza precaria, e nel vivere le identità di genere Lgbtq. Sono emersi comportamenti che si connotano per un’elevata mobilità territoriale e il mantenimento di relazioni di prossimità attraverso i social network. E nel caso dell’attuale movimento sociale si registra un forte protagonismo di giovani donne afroamericane – sull’onda anche degli scioperi femministi dell’8 marzo del 2017 e 2018 – e la partecipazione di giovani bianchi che condividono una condizione sociale o che sono rimasti delusi da come non sia stato considerato il loro impegno durante le due campagne elettorali di Bernie Sanders nelle primarie del Partito Democratico.

Quanto di Occupy Wall Street c’è in Black Lives Matter? E quanto peso elettorale avranno le attuali mobilitazioni e rivolte nelle prossime elezioni presidenziali per cacciare Trump? Le due questioni sono mal poste. Non c’è una linearità evidente tra il movimento Occupy e Black Lives Matter. Sottotraccia si notano certo forme di trasmissione di alcune esperienze come l’occupazione degli spazi urbani, ma non si va molto oltre. C’è invece la percezione simile che la posta in gioco riguarda lo scontro con il potere ai livelli più alti. In sostanza chiedere l’abolizione della polizia o anche solo una drastica riduzione delle sue risorse significa mettere in discussione un intero sistema istituzionale e rappresentativo. Va da sé che nessuno nel movimento vuole altri quattro anni di Trump, ma nello stesso tempo non fanno molta presa gli appelli al male minore dei democratici. Gli otto anni di Obama non hanno certamente reso meno diseguale la società. L’interesse, più che a livello elettorale, dovrebbe essere posto sui processi che stanno alla base di questo movimento sociale, come per alcuni versi furono per Occupy Wall Street: sono movimenti di classe, se nella definizione del concetto di classe non si rimane prigionieri di formule idealiste e si guarda alla sua composizione come un a processo attivo. E cioè al suo farsi nelle lotte, nei comportamenti materiali, nelle forme di socializzazione e comunicazione, negli immaginari. Gli spazi e i tempi della metropoli, in quanto luoghi e momenti della connessione tra valorizzazione capitalistica e riproduzione sociale, diventano gli ambiti in cui si politicizza l’azione del movimento. In una tensione continua tra la possibilità di interrompere la riproduzione dei rapporti sociali e la necessità di trasformarsi, dal punto di vista politico e organizzativo, per poterlo fare.

Questo ebook è una selezione di articoli scritti tra il 2011 e il 2020, pubblicati soprattutto sul sito di ∫connessioni precarie. Tra questi, Coast to coast: la traiettoria del movimento Occupy è stato scritto con Michele Cento. Alcuni articoli sono stati pubblicati sul sito di Communia Network. Ci sono anche tre interviste apparse sul portale-web Infoaut.org e un articolo, General strike: the exception which should become the rule, scritto con Cinzia Arruzza e pubblicato su «Occupy!», il giornale di Occupy Wall Street di New York. Si è scelto di presentare i testi suddividendoli in tre temi ‒ movimenti, scioperi, politiche ‒ che sono stati presenti, pur in modi diversi, nella discussione e nelle iniziative sia del movimento Occupy sia di Black Lives Matter.

New York, settembre 2020

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