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Le molte vite dell’«Uomo Nuovo»

Pubblicato su «Il Manifesto» del 12 luglio 2019

di FELICE MOMETTI e PAOLA RUDAN

L’operazione proposta da Traces of Modernism. Art and Politics from the First World War to Totalitarianism (Campus Verlag, 2019), curato da Monica Cioli, Maurizio Ricciardi e Pierangelo Schiera, è spiazzante. La categoria di «modernismo» transita fra arte e politica per indicare una crisi interna alla modernità: è la crisi dell’individuo liberale, intensificata nella prima metà del ‘900 da un rapido processo di modernizzazione, dalla politica di massa e dalle aspettative riversate nella scienza e nella tecnica dalla fine del XIX secolo. Questo processo impone di pensare l’«Uomo nuovo» nella cornice della degenerazione dello Stato e di una sempre più intensa socialità che deve essere «organizzata». Cercare le «tracce» del modernismo significa identificare i segni di nuovi modi di agire illuminati dalla prospettiva transnazionale nella quale si rispecchiano Europa, Stati Uniti e Russia. Mentre l’arte è trattata come un «fattore costituzionale», di legittimazione politica, la ricerca storica assume i tratti di un’«avanguardia» che osserva il passato dal presente con un intento prognostico (Schiera).

Secondo un’interpretazione diffusa il modernismo nell’arte si afferma con il movimento dei Fauves e poi con il Cubismo dove, con la forza espressiva del colore, dalla superficie piana del quadro emergono diverse temporalità. Si possono però individuare tracce moderniste già nei ritratti di Rembrandt e nella Zattera della Medusa di Gericault (Meyer-Fraatz). Scandagliando le zone oscure dell’animo umano, ritratti e autoritratti di Rembrandt pongono l’accento su un’individualità che si mette in movimento, in tensione con l’interiorità. La Zattera della Medusa è anche un’allegoria politica di una società borghese in transizione, poco importa se declinata poi in termini capitalistici o del «socialismo reale». Il confronto con questa alternativa, tuttavia, diventa cruciale nelle scienze sociali del primo ‘900 (Ferrari) di fronte alla necessità di rispondere all’incertezza suscitata dalla crisi capitalistica, dalle lotte operaie e dai dilemmi della democrazia. Il «desiderio di pianificazione» politica e sociale trova nella Russia sovietica una possibile risposta all’ambizione modernista di realizzare un ordine senza comando e una disciplina del cambiamento capace di produrre individui adeguati a una nuova civilizzazione.

Anche il modernismo artistico, come quello politico, è il tentativo di rispondere a una crisi e a molteplici aspettative. Prendendo spunto da Benjamin, si può dire che la cifra del modernismo delle avanguardie artistiche dei primi anni del ‘900 sia l’oscillazione tra una politicizzazione dell’arte e l’estetizzazione individuale della vita, un’oscillazione che innesca ambivalenze e contraddizioni: le «molte vite» dell’Uomo Nuovo tra l’immediata attualizzazione pensata dai Futuristi italiani e il progetto politico e artistico dei Costruttivisti russi (Benzi, Michaud); la ricerca di un impossibile equilibrio tra nazionalismo e internazionalismo dell’arte, da parte di critici e mercanti d’arte, alla vigilia della Prima guerra mondiale (Goetzman). Due temi, però, emergono con forza rispetto a tutto il resto: la città e la macchina. La città modernista si colloca tra la Parigi dei grandi boulevards del barone Haussmann e le anticipazioni del Movimento Moderno, quasi un ribaltamento di una certa cronologia dei sistemi urbani. Alla crisi della modernità urbana non segue un modernismo urbano che seleziona valori, esperienze, aspettative per rendere più sostenibile il rapporto con un modo di produzione. Il modernismo urbano riconfigura i processi di riproduzione dello spazio aprendo nuove vie individuali e, in parte, collettive nel vivere e nell’abitare. Impressionisti come Monet e Pissarro avevano già dato un’immagine della città moderna, ma è con La Citta che Sale di Boccioni e gli studi sulle automobili in corsa di Balla che si va oltre la semplice rappresentazione di spazi urbani per indicare la simultaneità di una velocità che contrae gli spazi, in stretta associazione con una trasformazione urbana dagli esiti imprevedibili. Non c’è una sequenza evolutiva tra modernità, modernismo e modernizzazione. Le crisi, le opposizioni, le fratture, le sovrapposizioni sono parte integrante dei percorsi artistici delle avanguardie storiche agli inizi del ‘900. La macchina come tecnologia, organizzazione sociale e immaginario, come misura di tutte le cose. È il futurismo italiano inizialmente il più esposto su questo versante, ma è il Bauhaus di Gropius, dopo una prima fase caratterizzata da scontri e assestamenti interni, a teorizzare e praticare l’unità tra arte e industria.

Queste teorie e pratiche dello spazio e del movimento procedono parallele al tentativo, da parte delle scienze politiche e sociali, di ripensare le coordinate della società in cui l’individuo è incorporato, di ristabilire un principio di autorità capace di rispondere alla crisi dei legami tradizionali innescata dai processi di individualizzazione propri del liberalismo, dalla rivoluzione proletaria, dal «risveglio delle donne». Nel periodo tra le due guerre, neoliberalismo, fordismo e pianificazione sono tentativi concorrenti di rispondere a quella crisi (Ricciardi), espressioni di un «tardo-modernismo autoritario» orientato a imporre una disciplina delle libertà corrispondente a un determinato progetto di ordine sociale. Il fordismo, come il taylorismo, entra a pieno titolo nella produzione artistica reinterpretando e razionalizzando spunti, stimoli, provocazioni delle avanguardie precedenti. Si enfatizzano uno «spirito moderno», un «sistema tecnico-scientifico», usciti rafforzati dai modelli organizzativi e dalle tecnologie militari utilizzati nella Prima Guerra mondiale. Fino a giungere, con la rivista francese l’«Esprit Nouveau» di Le Corbusier e Ozenfant, a una tecnologia artistica applicata alla società, e con Theo van Doesburg a ricercare una dimensione spirituale della macchina (Cioli). Il modernismo si fa modernizzazione capitalistica attraverso gli strumenti e le categorie della modernità. Ma gli esiti sono sempre provvisori, sempre soggetti ad essere ridiscussi.

C’è un episodio che vale la pena citare per il suo valore esplicativo. Nel giugno del 1927 Kazimir Malevič, già in disgrazia agli occhi di una nomenklatura staliniana in via di consolidamento, si reca a Dessau per incontrare Walter Gropius (Schloßberger-Oberhammer). L’intento è di verificare se il Bauhaus sia uno spazio in cui l’arte non sia schiacciata sulla propaganda di regime. La situazione è difficile su entrambi i fronti. Malevič è accusato di essere un artista borghese e verrà arrestato con l’accusa di essere una spia tedesca. Gropius e il Bauhaus sono al centro di una campagna diffamatoria che paradossalmente li accusa di bolscevismo. L’incontro fallisce per delle incomprensioni di fondo. Malevič non ha abbandonato l’idea di un’arte autonoma e indipendente dai regimi politici, Gropius pensa ancora all’arte e all’architettura come elementi propulsivi di una riforma sociale. Due aspetti del modernismo che si confrontano e scontrano ‒ rimandando alla domanda gramsciana in merito alla «capacità egemonica» della modernizzazione sovietica (Pons) ‒ ma che saranno segnati dallo stesso destino: la Repubblica di Weimar e il regime stalinista hanno intrapreso una modernizzazione violenta e non hanno lasciato spazio alle sperimentazioni artistiche, né alle innovazioni politiche.

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