martedì , 19 Marzo 2024

Una storica e orgogliosa cecità. I sindacati confederali e lo sciopero femminista

Eh sì, raramente pensiamo che le istituzioni invecchino come noi. Questa mancanza di attenzione ci spinge a considerare i malanni dell’età come parte della vita quotidiana degli individui e non come patologie che possono colpire anche le istituzioni. Eppure, come dimostra la recente lettera sull’8 marzo inviata dai tre sindacati confederali alle proprie sedi locali, anche le istituzioni possono essere affette da incapacità via via più acute. In effetti CGIL, CISL e UIL che si definiscono sindacati «storici e orgogliosi» sembrano aver perso tanto la capacità di vedere oggetti, movimenti e persone, anche quando si presentano davanti ai loro occhi in massa, quanto quella di ascoltare ciò che accade all’interno e all’esterno della loro istituzione e, infine, di riconoscere l’importanza delle questioni che si trovano davanti.

Questo quadro di inevitabile decadimento potrebbe aiutarci a capire, ma non ad accettare, un’idea così improbabile come quella di organizzare una grande assemblea unitaria di delegate donne al Policlinico Umberto I di Roma proprio l’8 marzo, giorno dello sciopero transnazionale femminista. In questo spazio di lavoro e di cura, definito ovviamente come un luogo di lavoro «soprattutto al femminile», prenderanno parola delegate sindacali provenienti da diversi contesti lavorativi, ma anche le dirigenti confederali UIL e CGIL, Ivana Veronese e Susanna Camusso, e la Segretaria Generale CISL Annamaria Furlan. Nell’aula A di Patologia generale (quando si dice la vendetta delle parole…) si rifletterà e si discuterà sulla contrattazione di genere, considerata dai nostri «storici e orgogliosi» sindacati come la «vera risposta e spinta al cambiamento». Lontano dalla marea femminista, protette dai movimenti disordinati delle altre donne, indifferenti a uno sciopero che mette in discussione il loro modo di intendere lo sciopero e la loro pretesa di essere gli unici soggetti che possono legittimamente dichiararlo e organizzarlo, le donne riunite in assemblea potranno serenamente ignorare lo sciopero femminista che si svolge sotto il loro «storico e orgoglioso» naso, tanto a Roma quanto nel resto del mondo. D’altra parte, la pratica di questa indifferente diffidenza ha portato gli apparati confederali a non vedere né tanto meno a riconoscere il lavoro di quelle delegate del loro stesso sindacato che si sono impegnate nello sciopero globale femminista lanciato in Italia da Non Una di Meno. Molto probabilmente hanno pensato che non c’era bisogno di una mano e se le sono lavate entrambe.

Si potrebbe pensare che siano la presbiopia e la mancanza di udito istituzionale a produrre questi effetti unendosi alla difficoltà, già presente in età adulta, di cogliere le connessioni tra gli eventi, come quella tra la violenza maschile e lo sfruttamento, che infatti gli apparati confederali pensano di poter risolvere mettendo mano alle condizioni contrattuali e trattando le donne come una «categoria» al pari dei metalmeccanici. Oppure, magari, puntando sull’alleanza con Confindustria che, mostrando tutta la sua sensibilità verso i comuni problemi del mondo del lavoro, ha già partecipato alla Grande Manifestazione romana dello scorso 9 febbraio. Oppure, ancora, facendo come la FIOM, che nel suo recente Grande Congresso ha riconosciuto che esiste chi ha il dono della vagina e, come vedremo a breve, coltiva l’idea ben bizzarra che esiste un modo buono perché ‘femminile’ di comandare il lavoro, un modo che salverà le operaie dallo sfruttamento di fabbrica. Così, dopo il mantra della femminilizzazione del lavoro, adesso ci tocca anche quello della femminilizzazione dell’imprenditoria.

Siamo quindi costrette a chiederci: queste istituzioni, sotto il peso della loro orgogliosa storia, possono anche solo vedere uno sciopero sociale e transnazionale che inonda le strade con una presenza di massa per combattere contro la precarietà del lavoro a partire dalla violenza maschile? Possono sentire il grido di uno sciopero politico, che dice un no globale all’alleanza tra patriarcato, razzismo e sfruttamento quotidiano? I loro problemi di vista e di udito possono essere davvero spiegati con la senilità istituzionale?

Sospettiamo di no. A dire il vero, infatti, una qualche eco di quel che sta accadendo da anni deve essere arrivata anche ai piani alti delle segreterie sindacali, perché nella loro lettera fanno un riferimento vago e generico al «valore delle tante iniziative che metteremo in atto in ogni contesto di lavoro e di vita, delle quali sono protagoniste le nostre iscritte, le lavoratrici e le pensionate, le delegate, le giovani donne e le cittadine», un valore così alto che hanno deciso di non sostenerlo a livello nazionale. E soprattutto hanno deciso di non nominare mai il quadro politico entro cui tutto ciò è stato possibile negli ultimi anni. Siccome, come tutti sanno, è molto più vicina ai movimenti, il merito maggiore di tanta indifferente diffidenza spetta soprattutto alla FIOM, che sta vivendo un simpatico ritorno al passato e lo scambia per lo stato presente di cose che nel frattempo le sono sfuggite completamente di mano. La FIOM, infatti, ha deciso che le donne sono donne, e poco importa se i casi della vita hanno fatto di alcune delle imprenditrici e di altre delle operaie. Leggendo il dossier intitolato «Metalmeccaniche», pubblicato in vista dell’ultimo Grande Congresso, si scopre allora che, mentre in tutto il mondo le donne scioperano, la FIOM ‒ o almeno la sua ala femminile, ben separata dal resto ‒ preferisce stare in libreria. Dopo le interviste ad alcune delegate e funzionarie sindacali su lavoro, lavoro sindacale e contrattazione, il dossier contiene infatti un’Appendice che raccoglie tra gli altri l’intervento di un’esponente della Libreria delle Donne di Milano, dove la FIOM è andata a discutere insieme ad alcune femministe d’ogni classe a partire dalla domanda: «di che cosa ha bisogno il lavoro»?

Qualcuna, particolarmente avventata, guardando magari dentro di sé e alla sua condizione lavorativa, potrebbe rispondere senza pensare: il lavoro ha bisogno dello sciopero femminista! La risposta però sarebbe sbagliata. Il femminismo della FIOM insegna che le donne vogliono dire un doppio sì, sì alla carriera e sì alla maternità. A breve potranno farlo grazie a «un progetto comune che vuole dare voce e connettere in maniera inedita esperienze di manager e sindacaliste», un progetto di cui la Libreria delle Donne di Milano è davvero orgogliosa essendone parte integrante. È un progetto grandioso che vuole «cambiare il mondo». Non è il vecchio mantra della «conciliazione tra casa e lavoro», ma il vero sogno di una cosa: l’incontro tra padrone e operaie, entrambe “ugualmente” dotate di vagina, farà infatti svanire il conflitto di classe realizzando un cambiamento della «cultura aziendale fondata su un esercizio del potere come dominio». I racconti delle lavoratrici, delegate e funzionarie raccolti nel dossier sollevano a dire il vero qualche dubbio a riguardo, ma la verità si trova negli autorevoli interventi in Appendice: come spiega la Signora Manager, gli interessi diversi possono finalmente convergere nell’azienda come «costruzione comune».

Non sappiamo se la FIOM porterà nell’Aula A di Patologia generale questa coraggiosa riflessione. Così come non sappiamo se giungerà in qualche forma l’avveniristica analisi della sua segretaria generale Francesca Re David che, di fronte ai «tempi (retro)moderni» del «lavoro nella fabbrica-rete», propone il sindacato così com’è e come è sempre stato. Nel nostro piccolo noi sappiamo soltanto che, piaccia o non piaccia, lo sciopero femminista c’è, che avviene fuori da ogni rituale di convocazione, che non si preoccupa di quanti delegati fa guadagnare uno sciopero vincente, che non cerca l’accordo preventivo né con i maschi violenti né con i padroni e le padrone che precarizzano. Lo sciopero femminista convocato da Non Una Di Meno ci sarà l’8 marzo e in piazza ci saranno migliaia di donne che della trista assemblea dell’Aula A di Patologia generale non avranno avuto nemmeno una lontana notizia.

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