giovedì , 28 Marzo 2024

Non è una carovana di migranti, ma un nuovo movimento sociale che cammina per una vita degna di essere vissuta

di AMARELA VARELA

pubblicato anche su «El diario» del 4 novembre 2018, tradotto da ∫connessioni precarie

Tra gennaio e settembre 2018, secondo le cifre pubblicate a ottobre dalla Unidad de Politica Migratoria del governo messicano, si sono «presentati» davanti alle autorità migratorie, il che significa che sono stati detenuti, 41.760 hondureñe e hondureñi di tutte le età; nello stesso periodo il governo messicano riporta 37.000 deportazioni tra le migliaia di sfollati dalla violenza dello Stato, dalla violenza del mercato e dalla violenza patriarcale.

Il paradosso è ben visibile: le deportazioni di questi sfollati sono state pagate con il denaro dell’erario pubblico messicano, lo stesso che, secondo fonti del governo, è tenuto in piedi – oltre che dal petrolio ‒ dalle rimesse di milioni di messicani, la metà dei quali resi illegali dal governo statunitense. Questo significa che nel corso di quest’anno ha attraversato questo «paese frontiera», come lo chiamano i migranti, un numero di persone pari a sei volte quello della cosiddetta Carovana Migrante, ma che sarebbe meglio definire come Esodo degli sfollati.

Nonostante ciò, a differenza di quest’ultimo gruppo che oggi sta arrivando a Città del Messico, i 41.760 uomini e donne provenienti dall’Honduras prima cercavano di attraversare il Messico viaggiando in modo disperso, lungo vie rese clandestine dalle politiche migratorie messicane che hanno neoliberalizzato la violenza contro le persone migranti, sfollate, rifugiate e richiedenti asilo nel nostro paese, appaltandola a veri e propri eserciti privati, composti per metà da sicari e per l’altra metà da complici delle diverse forze statali. Tutto questo è ormai documentato dai rapporti di organizzazioni nazionali e internazionali che si occupano di diritti umani. A differenza di quanto è accaduto fino a ora, oggi 10.000 migranti centroamericani per la maggior parte provenienti dall’Honduras camminano, piuttosto coordinati, attraverso questo «paese frontiera» in tre carovane o esodi che dal 19 ottobre 2018, e poi in due occasioni successive, sono riusciti a sfidare con i loro corpi, e niente di più, le truppe poliziesche/militari dispiegate contro famiglie con figli lungo la frontiera sud del Messico, quella del nord del Guatemala.

In altre parole, l’esodo degli sfollati, che oggi attira i media internazionali e che lotta per la sua quota di attenzione in un paese devastato dai crimini di Stato, da mucchi di cadaveri che viaggiano nei rimorchi, da una transizione politica alle porte e dalle festività per il giorno dei morti, non è niente di nuovo. Al contrario, su questo esodo, che i giornalisti messicani hanno definito «l’Olocausto invisibile del XXI secolo» (così Emiliano Monge, Las tierras arrasadas. Pingûin-RandomHouse, 2015), si sono scritte centinaia di migliaia di pagine negli ultimi 15 anni, tanto nel formato della nota roja, quanto in rapporti governativi e non-governativi sui diritti umani, oppure in consulenze sulla sicurezza nazionale, o ancora in forma di racconti, saggi, documenti, pubblicazioni accademiche e perfino straordinarie opere cinematografiche.

Questo perché sulla trasmigrazione centroamericana nella regione opera una vera e propria industria della migrazione composta soprattutto da reti criminali di tratta e traffico di persone, notoriamente colluse con le autorità di tutti i paesi coinvolti, ma anche da organismi internazionali e da organizzazioni della società civile che si occupano nella più estrema precarietà delle necessità che gli Stati sarebbero obbligati a garantire ai migranti, e infine anche da una vastissima gamma di specialisti, tecnocrati e accademici – come chi scrive – che cercano di «comprendere» la trasmigrazione. Alcuni lo fanno perché si illudono che la migrazione umana possa essere «governata» in maniera ordinata, altri perché vedono in questa dimensione del sociale degli esempi paradigmatici tanto di resistenza frontale quanto delle conseguenze umane del neoliberalismo. All’interno di questa industria ci sono quelli che considerano i migranti e gli sfollati come vittime, altri come clienti, altri ancora come criminali o trasgressori della legge, e solo una minoranza li vede come attori politici che continuamente e ripetutamente mettono in discussione l’agenda migratoria dei governi e l’industria della migrazione.

Per questa ragione la novità non è la presenza di migliaia di sfollati del neoliberalismo made in Centroamerica, questa popolazione che soltanto oggi il mondo guarda, dopo innumerevoli massacri (i più visibili furono quelli di San Fernando, Tamaulipas e Cadereyta, nel Nuevo León) e un numero incalcolabile di corpi di migranti gettati nelle fosse clandestine, che si confondono con quelle di un popolo che cerca disperatamente all’incirca 35.000 desaparecidos. I trasmigranti centroamericani costituiscono una popolazione che tiene insieme migranti minori non accompagnati o in compagnia dei loro familiari, donne fagocitate dalla tratta delle persone, uomini e anche vecchi che cercano di sfuggire alla violenza neoliberale di salari che non raggiungono i 100 euro al mese, all’impunità politica e al patto di silenzio intorno alla violenza generalizzata nelle strade dei quartieri poveri delle capitali centroamericane. La novità è piuttosto la modalità con la quale oggi i centroamericani si muovono attraverso il Messico: in massa, organizzati per gruppi che camminano uniti in un paese nel quale i coyotes chiedono loro tra i 9 e i 15.000 dollari – da pagare in anticipo – per passare negli Stati Uniti. Un paese quest’ultimo nel quale, non bisogna dimenticarlo, ci sono giudici che stanno giudicando dei bambini di due anni reclusi e separati dalle loro famiglie, pretendendo che dal banco degli imputati dichiarino le ragioni per le quali la giustizia statunitense dovrebbe credere alle ragioni della loro richiesta di asilo.

Nonostante ciò, coloro che oggi camminano insieme, accompagnati da organizzazioni umanitarie nazionali e internazionali, nonché dalla stampa domestica e globale, sono stati accusati di obbedire a una sorta di complotto politico pagato o incentivato dal presidente statunitense Donald Trump, di rispondere a interessi di gruppi di potere che cercano di destabilizzare la transizione pacifica messicana con il presidente neoeletto Andrés Manuel López Obrador, o di essere stati mobilitati come minimo da gruppi antagonisti al governo hondureño de facto di Juan Orlando Hernández Alvarado. Queste voci, che hanno screditato questa nuova forma di organizzazione politica, sebbene possano apparire sensate da un punto di vista geopolitico, dal nostro punto di vista sono razziste, discriminatorie e hanno provocato una risposta repressiva in settori chiave della popolazione che in genere non prestano attenzione al tema delle migrazioni e che, dopo aver visto donne e bambini superare di slancio le barriere alla frontiera, sono andati in cerca di spiegazioni proprio nelle penne prima citate. Quando gli opinion-leaders e gli esperti di mobilità umana e di relazioni internazionali hanno negato qualsiasi iniziativa e autonomia politica a chi si muove collettivamente sfidando i viaggi del terrore così ben documentati, abbiamo perso la preziosa opportunità di costruire, facendo eco all’immaginazione politica dei migranti e degli sfollati, un movimento politico di massa antirazzista in Messico.

Per questo è importante sottolineare il fatto che queste «carovane» di migliaia di persone che oggi attraversano il Messico, composte per il 45% da donne, bambini e bambine, sono una nuova forma di lotta migrante, o un nuovo tipo di movimento sociale senza istanze esplicitamente ideologiche, senza una forma di organizzazione apertamente in opposizione al capitalismo: semplicemente 10.000 persone si organizzano per marciare insieme alla ricerca di una vita degna di essere vissuta, trasformando la migrazione in una strategia politica per preservare la loro vita e quella dei loro figli che portano in braccio o nei passeggini lungo le pericolosissime strade del Messico. E, camminando, sfidano le frontiere della regione disegnate a Washington, basate su accordi internazionali per la sicurezza nazionale.

Tra gli aspetti più incoraggianti di questa iniziativa politica c’è l’appello ai villaggi e alle comunità che, vedendo i migranti camminare in massa, hanno trovato la forza di sfidare i sicari e i potentati locali, mostrando apertamente la loro solidarietà con bande musicali municipali, offrendo i fagioli dell’ultimo raccolto o semplicemente aprendo le loro case per farli riposare e permettere loro di usare il bagno, inaugurando così delle forme di ospitalità radicale che possono risarcire le complicità e anche i silenzi del popolo messicano verso i loro «pari», gli attuali «dannati della terra» centroamericani. Non si sa ancora come risponderanno i villaggi nei quali questi esodi, praticamente dei campi di rifugiati in movimento – come scrivono i colleghi del giornale «El Faro» – riusciranno a stabilirsi. Per ora, la marcia di migliaia di famiglie espulse dalla violenza e dalla miseria sta riuscendo a cambiare la grammatica delle migrazioni nel Messico, e dunque ha portato speranza e vita, proprio quello che manca qui e ora.

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