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Quelle fabbriche del mare

di ERNESTO MILANESI e DEVI SACCHETTO

Da «Il Manifesto» del 9 settembre 2018

Shipping: la «logistica del mare». Ma anche la nicchia opaca della Grande Crisi, il commercio tutt’altro che virtuale, il lato oscuro del lavoro globale, la «spia» dei nuovi equilibri mondiali, l’impatto dei mega-cargo sull’ambiente e perfino il ruolo nel soccorso dei migranti. È davvero un universo sconosciuto, anche se basta la bussola delle statistiche a inquadrarlo. Proprio adesso ci sono 20 milioni di container che solcano mari e oceani, mentre almeno 10 mila all’anno vanno a fondo. Nel 2016, secondo il rapporto «Safety & shipping review» presentato da Allianz, la flotta mondiale sopra la stazza lorda di 100 tonnellate ha perso – fra affondamenti, incagli, esplosioni, incendi e altri incidenti – ben 85 navi soprattutto nelle acque della Cina meridionale e del Sud est asiatico.

Shipping è sinonimo di un’altra «bolla» parallela a quella che ha travolto con Lehman Bros l’economia planetaria. Deutsche Bank ha recentemente ceduto i «crediti incagliati» (un miliardo di dollari) di un settore esposto con le banche per oltre 4 miliardi. Due anni fa è fallita la coreana Hanjin Shipping, abbandonando nei porti merci per 14 miliardi di dollari. Cantieri navali, compagnie di trasporto, broker, equipaggi sopravvivono di fatto sull’orlo della possibile bancarotta. Le compagnie armatoriali hanno continuato a ordinare navi sempre più grandi (le Triple E Class sono lunghe 400 metri, stivano 18 mila container e costano 185 milioni di dollari l’una), pensando che i costi si abbattessero grazie alla dimensione. Ma quando il prezzo dei noli è sceso, sono iniziati i fallimenti. D’altra parte, le grandi compagnie armatoriali paiono in procinto di allearsi e quindi costruire delle imprese gigantesche che, inevitabilmente, provocheranno il fallimento dei piccoli e medi operatori, in particolare di quelli che operano sulle rotte internazionali.

Ci sono navi alla fonda semplicemente in attesa di ordini, altre che vengono abbandonate insieme al loro equipaggio. È accaduto anche in Italia: i marinai stranieri sono costretti a bordo, perché se lasciano la nave senza il consenso dell’armatore perdono il diritto al salario oltre a diventare migranti senza documenti. Oggi Shanghai è il primo porto mondiale nel traffico di container con la Cina che occupa sette delle prime dieci posizioni. Rotterdam resta il riferimento obbligato dell’Europa, mentre l’Italia ha visto Genova e Gioia Tauro sfilare al di sotto della soglia dei primi 50 porti globalizzati. Il volume di carico trasportato nei 28 stati membri dell’Unione europea ammonta a circa 3,5 miliardi di tonnellate-chilometri all’anno. E la Grecia con 4.199 navi di stazza regge ancora la potenza cinese (l’Italia ne ha appena 768). Tuttavia Maersk (Danimarca) svetta come compagnia di navigazione di linea per capacità della nave portacontainer gestita (3,2 milioni di Teu: Twenty equivalent unit, la misura del container di 20 x 12 x 8 piedi).

Il sistema è apparentemente super-regolato, ma si tratta di legislazioni sovente in competizione l’una con l’altra. L’Organizzazione marittima internazionale è l’agenzia dell’Onu che emana delle norme che si possono applicare solo dopo che un certo numero di paesi le ratifica. A queste norme si sommano quelle di ogni singolo paese. Qualche anno fa un armatore egiziano lamentava che i marinai a bordo della nave attraccata a Venezia e battente bandiera egiziana non potevano scioperare, perché in Egitto era vietato. Ogni nave costituisce un potenziale luogo di lavoro unico sia perché la legislazione a bordo dipende dalla bandiera sia perché i marinai possono avere contratti di lavoro diversi stipulati con una delle migliaia di agenzie di reclutamento che sostengono la logistica del mare. Non è un caso che la vera flotta sia al riparo delle «bandiere di comodo»: 8.052 navi con quella di Panama, 3.296 immatricolate in Liberia e altre 3.199 nelle Isole Marshall. Anche l’Italia ha approvato nel 1998 una sorta di bandiera di comodo, pomposamente chiamato «registro internazionale»: permette di ottenere benefici di natura fiscale e previdenziale, oltre che reclutare marittimi stranieri. Nel Giorno internazionale del marittimo, il 25 giugno scorso, il sindacato indiano dei marittimi ha lanciato uno sciopero della fame che si è esteso a tutti i porti del paese: Mumbai, Kochi, Chennai, Kolkata, Andaman, Goa, Gujarat, Andhra Pradesh. I 150 mila marittimi indiani chiedono salari più elevati dei 100-150 dollari mensili, un miglioramento pensionistico e un maggiore numero di persone a bordo.

Il marinaio, diversamente dagli altri lavoratori, quando cede la sua forza lavoro vende quasi completamente se stesso per un tempo più o meno definito, misurato in mesi più che in ore o giornate lavorative. Così sovrappone, per lunghi periodi, luogo di lavoro e di riproduzione. Il contratto dei marinai è solitamente per un singolo imbarco. In genere, la forza comune che proviene da paesi a basso salario preferisce contratti lunghi, ritrovandosi così agli antipodi rispetto agli ufficiali dell’Europa occidentale che lavorano con contratti di pochi mesi.

Shipping e migranti: un bel paradosso. A bordo delle gigantesche portacontainer, almeno 1,5 milioni di marittimi imbarcati con una decisa prevalenza di cinesi, filippini, indonesiani, indiani. Attraversano anche il Canale di Sicilia, come a fine giugno la Alexander Maersk con le sue «murate» di 25 metri. Deve soccorrere 108 migranti, ma ha bisogno della Lifeline con i volontari della Ong per poterli imbarcare e far rotta su Pozzallo. Resta ferma al largo per tre giorni, mentre fra palazzo Chigi e Viminale si gioca la partita della propaganda. La compagnia intanto contabilizza: 30 mila dollari al giorno più le penali per la consegna in ritardo delle merci. Senza dimenticare la possibile sanzione da parte dell’Imo per aver violato la Convenzione di Amburgo. In Italia transitano ogni anno più di 5 milioni di marittimi che trasportano materie prime, semilavorati, merci finite legali e illegali. A questi marittimi l’Italia concede scarsi servizi: vedono sovente solo le banchine dei porti. Alcune associazioni, come l’Apostolato del mare, cercano di sopperire come a Venezia, ma i marinai spesso non hanno il tempo per rimanere a terra: una telefonata alla famiglia e qualche rapido acquisto.

Infine, non va dimenticato l’aspetto della sicurezza virtuale nello shipping. Le navi sono sottoposte a controlli sempre più raffinati, ma è evidente come proprio attraverso le stive (in particolare nei portacontainer) siano trasportate le varie merci illegali: dalle armi alla cocaina, da prodotti contraffatti all’amianto. I controlli sono sovente solo formali e svolti grazie ad algoritmi che calcolano la pericolosità in base ad alcune variabili di rischio dei settori merceologici. Conflitti bellici dalla Libia alla Siria allo Yemen si sostengono grazie ad armi che arrivano via mare. Ma anche il «carico» di cocaina nascosto nel porfido, che dall’Argentina via Spagna doveva rifornire il Trentino, rappresenta un caso di scuola. D’altra parte il rallentamento dovuto ai controlli spinge le imprese a spostare altrove i propri traffici e così occorre fare in fretta. Il tempo è l’elemento cruciale, mentre gli strumenti e il personale di controllo sono limitati. E così per non perdere traffici talvolta si chiude un occhio. O tutti e due…

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