martedì , 19 Marzo 2024

Viviamo per essere liberi. Contro il razzismo di governo, contro la povertà

di ASAHI MODENA e COORDINAMENTO MIGRANTI

da coordinamentomigranti.org

I «gravi motivi» da esibire, dimostrare e comprovare per ottenere un permesso di soggiorno umanitario in Italia dovranno prescindere dalla «mera constatazione di criticità». Il rigido linguaggio burocratico non riesce a mascherare la brutalità del comando. L’esistenza materiale delle migranti e dei migranti, ciò che hanno vissuto per arrivare in Italia, ciò che sopportano in questo paese, tutto questo non deve in alcun modo influire sulla concessione di un permesso di soggiorno umanitario. Questa è l’indicazione politica della circolare che i primi di luglio il Ministro degli Interni ha inviato alle commissioni territoriali incaricate di decidere sullo status di rifugiato, di concedere o negare un permesso umanitario. La concessione del permesso per motivi umanitari non dipende più dalla valutazione del singolo caso, ma deve appoggiarsi esclusivamente al giudizio sulle condizioni oggettive del paese di provenienza e sulla situazione del richiedente in quel contesto. Condizioni oggettive che sono stabilite sulla carta, aggiornando la lista dei safe countries secondo le esigenze del momento e sulla base dei rapporti con gli Stati africani, passando sopra a guerre civili, regimi dittatoriali, privazioni della libertà e violenze di ogni tipo. Il grande antieuropeista si allinea ai tentativi dell’Europa di decidere a tavolino sulla legittimità o illegittimità dei movimenti dei migranti. Non contano le condizioni di salute o di gravidanza, la minore età o un tragico vissuto personale, non contano gli stupri sistematici subiti dalle donne, non vale la persecuzione di cui migliaia di uomini e donne hanno fatto esperienza nei loro paesi per le loro scelte politiche o sessuali. Le «traversie affrontate nel viaggio verso l’Italia o la permanenza prolungata in Libia» sono del tutto indifferenti, così da poter salvaguardare i rapporti diplomatici con il cane da guardia dei confini europei. Tenere tutto questo in considerazione avrebbe portato alla concessione di troppi permessi. Così, le Commissioni vengono richiamate all’ordine dal ministro Salvini. Il reclutamento di 250 nuovi addetti (già stabilito dall’uomo forte Minniti, del quale il leghista segue le orme con lo zelo di un discepolo che sta superando il maestro) servirà dunque soltanto a mettere a regime la macchina della clandestinità che con efficienza e velocità produce dinieghi di massa. Se poi qualche tribunale accoglie – come spesso accade – il ricorso dei migranti che hanno ricevuto diniego, è compito dell’avvocatura dello Stato eseguire la ferrea linea del razzismo di governo impugnando la sentenza d’appello. Questo sta già succedendo, con ricorsi nei quali la stessa avvocatura si lascia andare a fantasiose considerazioni sulle condizioni dei paesi di origine e di transito con il fine evidente di rispondere alla stretta ministeriale. L’indifferenza verso le esperienze soggettive che determinano la richiesta di protezione è un modo per annullare progressivamente la possibilità di ricorrere alla protezione umanitaria, le cui maglie sono troppo larghe per garantire la gestione a pugno duro dei movimenti delle e dei migranti che Salvini sta cercando di imporre, con un’attenta selezione dei ‘casi’ che mediaticamente gli consentono di affermare la propria lugubre immagine di protettore della patria. L’effetto è la più violenta legittimazione della violenza: stupri, schiavitù, torture, forme brutali di detenzione sono considerate tanto normali da non costituire motivi sufficientemente gravi per esercitare un minimo di umanità. Questo dall’altra parte del confine. Da questa parte, la legittimazione della violenza moltiplica cacce all’uomo, alla donna, finanche ai bambini. Prima ancora di essere ufficialmente proclamato dal nuovo governo in carica, il diritto alla difesa della proprietà privata diviene un diritto alla difesa nazionale della razza. La proprietà è salva, mentre si apre la caccia al migrante.

Il salviniano razzismo di governo è un passo avanti e un’accelerazione rispetto all’infame razzismo democratico ancora praticato da alcuni amministratori locali, che hanno pensato e pensano al lavoro come un canale di accesso se non ai documenti, quanto meno alla speranza di non essere espulsi. Il Comune di Milano ha annunciato con entusiasmo dal suo sito che in pochi mesi si potranno contare fino a 800 «volontari» migranti con scopa, paletta e giubbotto, a ripulire una città che evidentemente solo così potrebbe tollerare la loro sporca presenza. A Bologna l’assessore comunale alla Sicurezza, Alberto Aitini, ha avviato un progetto per incaricare i richiedenti asilo ospitati nelle strutture di accoglienza di dare alla città una bella ripulita, naturalmente gratis. L’operazione vanta il sostegno di Matteo Lepore – oggi assessore all’economia e alla promozione della città, domani leader di non si capisce quale sinistra – che si è affrettato a difendere il lavoro volontario come prova dell’integrazione e ha chiarito che non si può parlare di schiavismo. In effetti, non ci sono catene né fruste: la coazione è data dalla mano invisibile stretta al collo di ogni donna e uomo migrante attraverso il ricatto del permesso di soggiorno. Ne sanno qualcosa i migranti che a Zone, un paese della provincia bresciana, hanno declinato la richiesta del sindaco di pulire gratuitamente un sentiero. Per tutta risposta, sono stati messi alla porta e hanno dovuto lasciare il paese. Il mantra del razzismo democratico – «il lavoro (non pagato) rende liberi» – sta però facendo il suo tempo. Nelle aule dei tribunali già si parla del lavoro volontario come un dovere, qualcosa che i migranti devono fare senza neppure aspettarsi che ciò possa essere valutato positivamente per la concessione del permesso. A Genova un’assessora leghista ha respinto l’idea del «piano caldo», un progetto di assistenza agli anziani da parte di alcuni migranti scelti. Il commento è stato tanto chiaro quanto brutale: non possiamo lasciare i nostri cari nelle mani di questa brutta gente. Nemmeno la possibilità di far quadrare i bilanci comunali e tagliare ulteriormente la spesa e i servizi pubblici essenziali grazie al lavoro non pagato delle e dei migranti fa gola al governo grillo-leghista. La vera posta in gioco è la possibilità di respingerli ogni volta che ciò sia necessario a usare il razzismo per risarcire simbolicamente il lavoro in pelle bianca e nascondere le politiche di impoverimento che il governo persegue imperterrito parlando di reddito, dignità e flat taxLe posizioni sempre più violente sul fronte migranti e la costante istigazione al razzismo sono il segnale più palese del fatto che il governo non ha nulla di reale da offrire a chi ha subito gli effetti della crisi e della precarizzazione.

Affermando che il permesso umanitario non deve più essere considerato «uno strumento premiale dell’integrazione» la circolare del Ministro Salvini mette quindi fine al razzismo democratico. Ai migranti non è più nemmeno lasciata l’illusione di un’integrazione nello sfruttamento, ma solo la brutale certezza di poter essere espulsi in ogni momento. Ciò nonostante, il lavoro migrante continua a essere centrale nella riproduzione della società italiana, perché essa non può assolutamente rinunciare alla forza lavoro povera e sfruttabile che serve al piccolo capitale nazionale che ha garantito l’ascesa e il successo elettorale della Lega padrona. Salvini ha perciò dichiarato che non è accettabile il rinnovo automatico della protezione umanitaria: troppi richiedenti asilo rimangono «regolarmente» sul territorio quando i motivi umanitari non sussistono più o quando mostrano difficoltà di inserimento nella bianca e produttiva società italiana, «salvo – ovviamente – i pochi casi in cui il permesso umanitario è stato convertito in permesso per motivi di lavoro». Sarà per questo che da qualche tempo la Questura di Bologna (ma non è certamente l’unica), al momento del rinnovo del permesso umanitario verifica l’esistenza di un contratto di lavoro. Dopo essere stata di fatto resa obsoleta dalle donne e uomini migranti che in questi anni hanno praticato in massa l’ingresso in questo paese per motivi umanitari, la logica della legge Bossi-Fini sembra tornare improvvisamente buona: lo sfruttamento è ancora il prezzo da pagare, a qualunque condizione, per un permesso di soggiorno che tuttavia non è garantito, anzi è sempre più un miraggio, un privilegio per pochissimi. Uno strumento di subordinazione e oppressione nelle mani di un governo che – mentre garantisce l’intensificazione dello sfruttamento di coloro che sono in Italia, con o senza documenti – promette di cacciare tutti coloro che mostrano l’evidenza della povertà. Il progetto di moltiplicare i CPR è il punto più evidente di questa logica che, incarcerando ed espellendo la libertà di movimento, rende chiaro a tutti che ognuno deve stare al suo posto, anche se non ha un posto di lavoro.

Nelle scorse settimane una reazione c’è stata. Le piazze di tante città si sono riempite per invocare l’apertura dei porti, sul confine di Ventimiglia migliaia di donne e uomini hanno invocato la libertà di circolazione e movimento per i migranti. Su questa libertà è necessario puntare per togliere ogni legittimità al razzismo di governo. Questa libertà lega a doppio filo i migranti che hanno sfondato le barriere di Ceuta per entrare in Europa e quelli che hanno manifestato a Modena il 7 luglio, rifiutando con forza e determinazione le politiche dei dinieghi, la clandestinizzazione, la gabbia dell’accoglienza, l’apertura di nuovi CPR. Non sono solo i migranti a dover percorrere quella strada di libertà. La pretesa di non essere reclusi, di non essere poveri, di non essere stuprate è la spinta di una lotta che riguarda tutti coloro che non accettano il razzismo come risarcimento illusorio per il proprio sfruttamento e per la propria oppressione.

 

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