martedì , 19 Marzo 2024

Trump, l’Alt-Right e la guerra civile come politica di classe

di FELICE MOMETTI

Che Jamie Dimon, numero uno di JPMorgan Chase, la più grande banca degli Stati Uniti, sia diventato un campione di antifascismo è dura da credere. Soprattutto andando a rivedere il report redatto dalla banca quattro anni fa sulle Costituzioni antifasciste europee, che sarebbero inadatte a favorire l’integrazione europea perché troppo sbilanciate verso i diritti dei lavoratori. Sta di fatto che Dimon ha abbandonato il gruppo dei consiglieri di Trump prima di Richard Trumka, capo dell’Afl-Cio, il più grande sindacato degli Stati Uniti, che ha dato le dimissioni dopo l’esplicito attacco del «New York Times» nei suoi confronti. Un episodio, questo, che riveste un significato simbolico, oltre che reale, non scontato. Dopo i fatti di Charlottesville e l’uccisione dell’attivista antirazzista Heather Heyer, l’élite del management dei principali gruppi capitalistici che ancora manteneva un rapporto di collaborazione con Trump ha deciso di puntare sul rapporto di forza con la Casa Bianca. Costringendo, in questo modo, anche il gruppo dirigente del più grande sindacato a fare un passo indietro nella volontà concertativa con The Donald. Nessun improvviso antifascismo o antirazzismo sta attraversando i consigli di amministrazione delle grandi società e gli esecutivi dei sindacati. C’è invece la valutazione politica della debolezza intrinseca, e quindi della pericolosità sia sul fronte interno che internazionale, della «macchia arancione» che siede nello studio ovale.

Il tentativo di Trump di agganciarsi alle strumentali proteste per la rimozione dei simboli e delle statue sudiste è fallito perché è politicamente fallita la strategia di unificare e rendere in qualche modo coesa quella galassia di gruppi che passa sotto il nome di Alt-Right. A Charlottesville, dopo un lavoro organizzativo e di propaganda sui social durato mesi e alcune «prove tecniche» in aprile a Berkeley e a inizio luglio nella stessa Charlottesville, si sono dati appuntamento razzisti, antisemiti, neo-confederati, «ragazzi orgogliosi», neonazisti, nazionalisti, ex-miliziani, bikers nazi-libertariani. Un coacervo di gruppi fino a ieri in concorrenza tra loro e tutti alla ricerca di una visibilità nazionale persino attraverso l’omicidio premeditato. Si tratta di alcune centinaia di persone, ed etichettarle solo come suprematisti bianchi sarebbe quanto meno limitativo, tanto da portare a un certo strabismo politico. I gruppi che si richiamano e provengono dalla tradizione suprematista sono una piccola minoranza di tale schieramento. Alla necessità di Trump di avere una base di consenso politicamente attiva non è corrisposta una capacità di mobilitazione apprezzabile e una reale condivisione di un progetto politico. L’estrema destra rimane in campo, anche dopo la battuta d’arresto di Charlottesville, perché con l’elezione di Trump si è conquistata uno spazio maggiore di azione e manovra politica. Il lavoro politico di alcun network dell’antifascismo militante è prezioso, ma per contrastare Trump oggi ci vuole altro.

La strada, dentro il partito repubblicano, per la costituzione di un raggruppamento simile all’ex Tea Party a sostegno del Presidente è ancora chiusa. L’Obamacare non è stato smantellato, il Pentagono rimane reticente su possibili avventure militari, ci possono essere sviluppi imprevedibili nel Russiagate e si profila un ulteriore scontro al Congresso sulla cosiddetta riforma del sistema fiscale. Intanto continua la girandola delle dimissioni e dei licenziamenti nello staff del Presidente. Ultimo caso quello del già ridimensionato Steve Bannon, estensore dei primi decreti razzisti sull’ingresso negli Stati Uniti, teorico della «destrutturazione dello Stato» e anello di congiunzione con l’estrema destra. E ora, con l’ufficiale fuoriuscita di Bannon dall’Amministrazione su iniziativa del capo di gabinetto, l’ex generale John Kelly, anche i rapporti con la destra estrema peggioreranno. Quindi, un Trump sempre più sospeso a mezz’aria e per questo costretto ad alzare il tiro delle minacce e delle promesse. Certo una situazione di stallo preoccupante, ma che non può essere rubricata sotto la voce di «nuova guerra civile» come pensano alcuni settori di sinistra dei Democratici. Da questo punto di vista si assiste a una riduzione banalizzante della vera guerra civile americana, interpretata esclusivamente come una guerra per abolire la schiavitù negli Stati del sud e non anche come l’affermazione di uno specifico modo di produzione capitalistico e di una concezione dello Stato. Prevale la volontà di sferrare l’affondo mediatico-istituzionale contro Trump senza una mobilitazione sociale che potrebbe realisticamente riaprire i giochi politici domandandosi seriamente perché Trump è diventato Presidente. A Charlottesville l’estrema destra non ha sfondato anche per l’interposizione di un’articolata mobilitazione antifascista e antirazzista che però non è andata oltre la cerchia dell’attivismo politico e sociale. La crisi di Black Lives Matter non vede soluzione e gli appelli all’unità antifascista delle varie sinistre scontano una genericità che si traduce solo in una disarmante inefficacia. Il nodo rimane una composizione di classe, soprattutto giovanile, che negli ultimi anni ha espresso delle potenzialità nei vari movimenti sociali ed è alla ricerca di forme e modalità politiche che attualmente non sono ancora date.

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