martedì , 23 Aprile 2024

Buoni o cattivi padri? Non è questa la fine. Note su psicoanalisi e patriarcato

Buoni o cattivi padridi PIETRO BIANCHI

Le note che seguono – che avviano la mia collaborazione con ∫connessioni precarie – prenderanno spunto da un intervento pubblicato su questo sito da Gerolamo Cardini, dal titolo Cattivi maestri e cattivi padri. Appunti di una pedagogia per orfani. Il carattere provvisorio e del tutto insufficiente di queste brevi riflessioni dipende dal fatto che è mio interesse primario in questo momento provare ad aprire un confronto su un tema – quello dell’intreccio tra psicoanalisi, politica e trasmissione dei saperi – che considero di grande rilevanza politica, soprattutto in questa congiuntura. Proporrò dunque delle tesi che sono ben lontane da ogni definitività ma che proprio per il loro carattere provvisorio necessitano di essere discusse e confrontate, anche criticamente, in un modo il più possibile allargato. Mi scuso quindi se, a beneficio della discussione, sarò eccessivamente ‘tranchant’ in alcuni punti o se alcuni passaggi sembreranno richiedere uno sviluppo ulteriore. Mi propongo in ogni caso di ritornare in modo più approfondito su alcune delle questioni più rilevanti.

Nel suo testo Cardini sviluppa una riflessione di grande interesse riguardo al problema della trasmissione dei saperi, dell’educazione e più in generale di una pedagogia che si ponga ancora l’obiettivo di trasformare l’esistente. Nel fare questo, prende in esame alcune delle tesi dello psicoanalista lacaniano Massimo Recalcati. In particolare viene discusso quel fenomeno che è divenuto noto con la formula «evaporazione del padre»: un processo complesso che parlerebbe della crisi d’autorevolezza che hanno subito alcune figure dell’autorità familiare e sociale e della conseguente diffusione, in particolare nelle nuove generazioni, di una cosiddetta etica del godimento. La tesi era in effetti già ampiamente discussa da diversi anni nel dibattito lacaniano, anche se Recalcati ha avuto il merito di darne una formulazione di grande incisività in grado di utilizzare con chiarezza l’apparato concettuale della psicoanalisi lacaniana in un’analisi del sociale. Slavoj Žižek, ad esempio, già dai tempi di Il godimento come fattore politico (che in Italia venne pubblicato nel 2001, ma che uscì in inglese dieci anni prima) aveva fatto una riflessione simile, sottolineando come il legame sociale contemporaneo si basasse non tanto su un’autorità interdittiva quanto su una paradossale ingiunzione alla trasgressione. La regola fondamentale del capitalismo contemporaneo, secondo Žižek così come per Recalcati, non sta tanto nella proibizione o nell’impedimento – non sta dunque in una negazione della libertà – quanto in una paradossale ingiunzione al godimento: come se l’imperativo «godi!» o «trasgredisci!» fosse diventato una paradossale forma di legame sociale. Si capisce bene come una regola che enunci il principio della propria stessa negazione, come «sii libero» o «trasgredisci ogni regola», finisca per instaurare un legame perverso col proprio interlocutore: un cosiddetto double-bind. L’autorità simbolica finirebbe dunque per farsi custode del godimento trasgressivo di chi le deve obbedire, con delle conseguenze rilevanti per la tenuta del simbolico. Un esempio è quello tristemente noto del genitore che prende le difese del godimento del figlio (contro il maestro di scuola) con un cortocircuito educativo di cui Cardini nella sua lettura di Recalcati coglie bene l’importanza.

Tuttavia qui si dipanano due strade, che presentano entrambe dei problemi secondo Cardini: da un lato una lettura anarchicheggiante, apologetica e positiva di questo processo che vede nell’indebolimento della figura dell’autorità e nell’orizzontalizzazione della relazione educativa una possibilità di liberazione soggettiva; dall’altro una nostalgia, nemmeno troppo velata e purtroppo sempre più diffusa anche a sinistra, per un’autorità simbolica efficace e per un nuovo Edipo capace di proibire e interdire, e dunque di porre un limite. Nello specifico della relazione educativa la prima opzione avrebbe il difetto di non essere in grado di sciogliere il nodo che tiene insieme sapere e potere e peccherebbe quindi di ingenuità: si illuderebbe infatti che la detronizzazione della posizione asimmetrica dell’autorità basterebbe a produrre un sapere libero ed emancipativo (quando invece in una relazione orizzontale la partita della produzione del sapere sarebbe ancora del tutto aperta). La seconda peccherebbe invece di cinismo, perché non riuscirebbe a pensare a un sapere che non sia emanazione della proibizione del Maestro. Secondo quest’ultima ci vorrebbe insomma un nuovo padrone per porre dei limiti e per arginare l’etica del godimento auto-distruttivo dalla quale non possono che nascere figli narcisisti, auto-centrati e incapaci di produrre un sapere critico e trasformativo.

La fascinazione che stanno avendo a sinistra le posizioni neo-autoritarie e neo-patriarcali avrebbe bisogno di una genesi complessa, la cui ricostruzione esula dal proposito di queste brevi note. Basterebbe però sottolineare – per coglierne almeno un aspetto politico qui rilevante – come a questa chiamata alle armi per un nuovo Edipo si accompagni una rilettura, che potremmo definire revisionistica, del ’68, che è ormai da molti considerato (anche a sinistra) come un momento decisivo in cui l’autorità, e dunque il Padre, è stato deprivato della propria efficacia simbolica. Partirebbe dunque da qui quel processo che ha dato vita a un’etica del godimento individualista, narcisista e autodistruttiva che poi è arrivata fino ad oggi. Emblema di questo tipo di lettura è il breve pamphlet di Mario Perniola Berlusconi o il ’68 realizzato (Mimesis) in cui il ’68 viene messo in linea di continuità con la contro-rivoluzione degli anni Ottanta, l’ascesa delle tv commerciali e poi il ventennio berlusconiano. Ma anche Recalcati, se pure in modo senz’altro più raffinato, mette in relazione il «figlio-Narciso», assorbito dall’immagine di sé e dal proprio godimento auto-centrato, con l’anti-Edipo del ’68. Come se il figlio Edipico che era in contrapposizione (positiva e formativa) con il proprio agente d’autorità simbolica fosse stato sostituito, anche in conseguenza dei movimenti anti-autoritari del ’68, da una specie di alleanza tra genitori e figli – non più in contrapposizione, ma «amici» gli uni degli altri – in cui a fare da padrone è il godimento o quel fenomeno che la psicoanalista lacaniana Colette Soler ha definito con il neologismo di narcinismo.

Non ci interessa ora discutere se questa tesi sia o meno corretta. Si potrebbe ad esempio obiettare en passant come la riduzione del ’68 a movimento generazionale (figli vs. padri), anti-autoritario o persino di costume faccia parte di una più ampia strategia volta a cancellarne la dimensione di classe. Si ricordano dunque i movimenti degli studenti o un femminismo ridotto a pruriginosa critica dei costumi sessuali dimenticando (o meglio, cancellando consapevolmente) le occupazioni delle fabbriche e un conflitto di classe agito dentro il mondo della produzione e ai circuiti di produzione del valore. Si interpreta cioè il ’68 a partire da quella contro-rivoluzione neo-liberale con la quale lo si vorrebbe in continuità; e si finisce, come spesso accade in questi casi, a provare la bontà di quella tesi che in realtà si è già inconsapevolmente accettata come premessa implicita al proprio punto di vista. Il problema dell’evaporazione del padre non viene dunque semplicemente accompagnato da un progetto di re-istituzione dell’Edipo – sebbene Recalcati insista spesso sulla natura diversa e non nostalgica di questo progetto – ma va di pari passo anche a una critica a quello che, nel bene o nel male, a torto o a ragione, viene considerato come uno dei tentativi di trasformazione dell’esistente più importanti del dopo-guerra. Insomma, al netto del suo interesse analitico, tutti i motivi per sospettare dei pericoli autoritari di una posizione del genere ci sono.

La domanda che dunque ci poniamo è: divisa tra il successo sempre più ampio che stanno riscuotendo anche a sinistra le nostalgie neo-autoritarie dell’Edipo e un’apologia dell’etica cinica del godimento, la psicoanalisi da che parte sta? È vero che la psicoanalisi non può che essere uno strumento per la re-introduzione di una relazione autoritaria e per la difesa del limite di fronte a un godimento sregolato e individualistico? È vero, come sostiene Paolo Godani in Senza padri. Economia del desiderio e condizioni di libertà nel capitalismo contemporaneo (DeriveApprodi, 2014) che vi è un «nuovo ordine del discorso» di cui la psicoanalisi lacaniana costituirebbe il cuore, secondo cui la frammentazione del legame sociale e la liquefazione della comunità sarebbero la più grande delle sciagure e alle quali bisognerebbe rispondere con una nuove Legge, un nuovo Padre e un nuovo Ordine, perché è soltanto in rapporto alla Legge che un desiderio – anche di trasformazione – può davvero prendere forma? È insomma la psicoanalisi, come voleva Foucault, un’ancella a servizio del potere e del discorso del Padrone? E non è forse, come dice lo stesso Cardini, il suo essere strutturalmente legata alla cura degli individui e non delle collettività un ostacolo insormontabile per farne uno strumento utile a una trasformazione dell’esistente, alla formazione di soggetti insorgenti e a una lotta al modo di produzione capitalistico?

Il problema della presunta radice reazionaria della psicoanalisi è un problema antico sul quale molte sarebbero le cose da dire. Ci limiteremo intanto a provare a ragionare attorno al concetto di Padre, per provare poi a trarre qualche conclusione sul possibile contributo della psicoanalisi a una pedagogia della trasformazione.

Proviamo allora a fare un passo indietro e a chiederci che cosa si intenda quando si parla di «evaporazione del padre». La psicoanalisi ci aiuta a chiarire una distinzione cruciale riguardo alla definizione della paternità. Ciò che definiamo padre è infatti nello stesso tempo un luogo simbolico, e quindi sociale, che permette l’organizzazione della realtà e una persona in carne e ossa che si fa portatrice di quest’istanza. Ciò che è da sottolineare è proprio l’espressione nello stesso tempo, perché è solo nella famiglia occidentale moderna che queste due funzioni vengono a sovrapporsi, e l’istanza della legge viene incarnata direttamente in una persona concreta (là dove in alcune tribù, ad esempio, veniva scissa e usato un totem). L’«evaporazione del padre» ci parla allora della crisi di questa specifica e storicamente determinata modalità d’incarnazione della Legge. Nella relazione di equilibrio tra luogo simbolico della Legge e padre reale vi sarebbe insomma un declino del primo aspetto e uno spostamento d’attenzione verso l’uomo empirico. È un po’ come se nell’ambito giuridico la sentenza di un giudice smettesse di essere la diretta espressione della Legge e venisse considerata soltanto l’idiosincratica espressione dell’opinione di una persona in carne e ossa: la conseguenza sarebbe un crollo dell’intero impianto giuridico dalle sue fondamenta. Allo stesso modo la figura paterna in un momento di declino della sua investitura simbolica finisce per diventare «soltanto» un uomo comune.  Il problema, già intuibile nel Freud di Totem e Tabù, è che laddove vi è un declino del padre come autorità simbolica e normativa non vi è alcuna liberazione dalla schiavitù della legge. Come è stato rilevato da Slavoj Žižek, «l’ampiamente biasimato ‘declino dell’Edipo’ odierno causa un ritorno di figure che funzionano secondo la logica del ‘padre primordiale’, dai leader politici ‘totalitari’ ai molestatori sessuali paterni». L’autorità insomma, anche quando viene deprivata dell’aura della Legge, non scompare affatto, cambia semplicemente le modalità della sua investitura: non più prodotta da una Legge, che proprio in quanto tale è aperta a una contestazione, ma prodotta da un’identificazione immediata, quasi sensistica, con la particolarità umana del leader. Il processo di identificazione, quasi transferale, con i leader politici ultrapersonalizzati della politica-spettacolo contemporanea, che parlano sempre più spesso il lessico dell’intimità e dell’affetto personale, ci parla proprio di questa scomparsa della mediazione neutralizzante del simbolico.

Quello che vorremmo dire è che piuttosto che parlare di «evaporazione del padre» in generale – cosa che potrebbe creare delle ambiguità dal momento che mette insieme due cose tanto diverse quanto la crisi di un posto simbolico e la crisi del fatto che questo luogo simbolico è stato storicamente occupato dai padri della famiglia mononucleare – sarebbe più corretto parlare di una «evaporazione del simbolico» o di una crisi della sua trasmissione. La crisi del simbolico ha infatti delle ripercussioni che vanno ben oltre il pur auspicabile indebolimento delle figure dell’autorità maschile del patriarcato. Ad esempio riguarda il passaggio, sempre più problematico e difficoltoso, dalla dialettica delle relazioni interne allo spazio privato (famiglia, sessualità, rapporto genitori-figli) a quelle dello spazio pubblico. L’impressione è che la crisi del simbolico abbia prodotto una relazione di continuità tra queste sfere dell’esistenza: non soltanto una politicizzazione dello spazio privato e familiare, ma anche una sempre più accentuata e preoccupante familiarizzazione  dello spazio pubblico. Questo processo è palese se guardiamo alla personalizzazione della politica o alla trasformazione dei rapporti di lavoro in legami che ricordano sempre di più il vincolo familiare (con tutto quello che ne consegue in termini di lotta di classe), ma riguarda anche esperienze vicine ai movimenti sociali. Pensiamo in particolare ai sempre più frequenti richiami a termini come comunità o territorio con tutto il portato di ambiguità interclassiste e fusionali che inevitabilmente si portano appresso. O a come esperienze come quelle dei centri sociali – che hanno avuto, e in alcuni casi continuano ad avere, un ruolo politicamente rilevante – si strutturino attorno a modalità relazionali fusionali e parafamilistiche che spesso si trovano proprio al margine tra uno spazio pubblico e uno privato (e che infatti vengono riutilizzate nelle comunità di estrema destra senza alcun cambiamento significativo).

La soluzione sarebbe dunque quella di trovare una nuova incarnazione della Legge simbolica in un nuovo Padre, come propone Recalcati con Telemaco? Oppure è necessario fare spazio a un padre indebolito, magari post-patriarcale, magari pure occupato da altre identità sessuali e accompagnato da un nuovo patto sessuale tra i generi? Il problema forse non è tanto il fatto di lasciare che un’altra figura occupi il posto della trasmissione della Legge ma che questo posto debba essere lasciato vuoto. Che insomma bisogna separare l’esigenza di operatività ed efficacia del simbolico dal fatto che una figura in carne e ossa debba incarnarne la sua missione. Tra il progetto anarchicheggiante e neo-deleuziano di un campo dell’immanenza assoluto – in termine lacaniani potremmo definirlo di un reale senza simbolico – e la nostalgia neo-Edipica di una nuova alleanza tra i Padri e la Legge, crediamo che si possa ipotizzare una terza via. Quale?

Evocare un’esperienza concreta o una ricetta collettiva sarebbe impossibile, dato che il simbolico è per definizione uno e non esistono né zone temporalmente autonome né spazi liberati da esso. Faremo riferimento allora al cinema, ben consci dei limiti che una soluzione del genere ha. Il cinema però è un terreno che spesso è in grado di prefigurare mondi simbolici inesistenti (o esistenti solo virtualmente) e che quindi può aiutarci a mostrare la possibilità concreta di un simbolico che è operativo e funzionante pur nell’assenza di qualcuno che incarni la sua funzione nella realtà. Pensiamo in particolare a un film di qualche anno fa del regista Gus Van Sant, Paranoid Park.

Nonostante l’apparenza realistica, potremmo definire Paranoid Park un film di fantascienza. Ci mostra infatti come sarebbe il mondo se l’«evaporazione del padre» fosse davvero avvenuta e conclusa. Ovvero se il mondo fosse davvero senza padri. Gus Van Sant usa l’espediente di mettere sempre fuori campo i genitori del sedicenne Alex, il protagonista del film. Alex è uno skater, uno che a scuola non va molto bene e che preferisce passare i pomeriggi al Paranoid Park, uno skate-park abusivamente occupato di Portland dove molti ragazzi come lui passano i pomeriggi. I genitori gli rivolgono a malapena la parola, nel suo mondo simbolico di fatto non esistono. È un mondo di pari, dove tutti sono coetanei e dove non ci sono stacchi generazionali (e infatti non vediamo nemmeno un adulto). Una notte Alex si trova insieme ad alcuni amici in uno scalo ferroviario semi-abbandonato: giocano a salire sui treni merci in corsa e a farsi trasportare da essi per un po’. A un tratto una fatalità fa sì che Alex faccia cadere per terra una guardia giurata che lo stava inseguendo. L’uomo cade per terra e viene tranciato in due da un treno in corsa morendo sul colpo.

In un mondo senza Legge non esistono né colpe né sanzioni. Alex ha ucciso una persona ma sa che nessuno lo verrà a punire per questo, perché la Legge a Paranoid Park non c’è. Il suo problema però non è quello di andare a costituirsi o di cercare un padre che possa finalmente punirlo, come farebbe Telemaco. Il problema non è quello di aspettare una figura che possa incarnare la Legge, in modo che lui possa essere sanzionato e quindi difeso, tramite il limite della Legge, da ciò di cui si ha più orrore: quel godimento monadico autodistruttivo e senza limiti nel quale si verrebbe a trovare un individuo se non ci fossa la Legge che sanzionerebbe il suo crimine. Il problema di Alex è quello di inventarsi un simbolico, trovare cioè un modo per iscrivere simbolicamente la colpa del suo omicidio senza entrare nel circolo vizioso dell’autorità. Come fa? Lo fa con un’amica: non quella sexy e cool con cui ha le prime esperienze erotiche e per la quale non prova alcun desiderio (perché senza la Legge, è difficile dare forma al proprio desiderio), ma una sua amica, una sua pari, Macy, che come lui vuole dare forma alla propria esistenza senza dover invocare l’interdizione della Legge del padre. È lei che dice ad Alex di scrivere delle lettere dove raccontare dell’omicidio, e di indirizzarle a un amico o a un’amica, magari a lei stessa. Alex farà proprio così, ma è sufficiente sapere che questo indirizzo esista (cioè, che venga contato simbolicamente), senza che vi sia qualcuno in carne e ossa che debba occuparlo. Alex e Macy vanno allora una notte in un parco e bruciano tutte le lettere, proprio perché questo posto del simbolico e della Legge rimanga vuoto ma ne venga preservata l’operatività e l’esistenza. Paranoid Park ci parla allora di quell’operazione che è politicamente così importante in questo momento, di invenzione di un simbolico che possa dare forma a un desiderio di trasformazione senza che questo comporti la convocazione di una nuova autorità, di un nuovo Padre. Alex riesce a iscrivere simbolicamente il gesto del suo omicidio senza che vi sia un’autorità pronta a sanzionarlo. Senza che quindi venga delegato il senso di colpa a qualcuno che se ne assuma il monopolio. Alex in un certo senso riesce a conservare il senso di colpa senza dover fare ammenda di fronte a un’autorità. Questo gesto ci fa capire come sia possibile sciogliere quel nodo che secondo Foucault legava la pratica della confessione a quella della seduta analitica: perché è proprio la psicoanalisi che può permetterci di separare il posto vuoto della Legge da colui che nel nostro mondo vorrebbe incarnarne direttamente la sua autorità. Lacan diceva che del Padre si può fare a meno, a costo che si sia capaci di servirsene. Cosa vuole dire? Vuole dire che è possibile che si mantenga l’operatività della Legge e del simbolico senza che vi debba essere a tutti i costi un’autorità che se ne faccia garante. E che quindi possa esistere una Legge senza autorità.

Paranoid Park invita dunque a porci una domanda che sta proprio all’incrocio tra la riflessione psicoanalitica e quella politica: è possibile conservare il sentimento di colpa e di vergogna, così come quello della gioia e del desiderio senza dover per forza passare per l’incarnazione della Legge in una figura pubblica dell’autorità? È possibile dare forma al proprio desiderio senza che si debba instaurare il confronto dialettico con il Padre o con un’autorità? I padri, così come i padroni, provocano l’illusione che se loro scomparissero, potremmo autenticamente essere liberi. È il modo attraverso cui la libertà è diventata una figura rovesciata dell’autorità e del suo intreccio inestricabile di Legge e trasgressione. È proprio perché pone un vincolo tramite l’interdizione della Legge che il Padre lascia intravedere in filigrana l’illusione del suo superamento. È per questo che la psicoanalisi diffida sempre delle dichiarazioni di rescissione dei vincoli, così come di chi dice che potremmo sbarazzarci dell’Edipo ed essere finalmente liberi di vivere in un mondo avulso dalla presa della Legge. Fantasticare sulla propria libertà dai vincoli è il modo migliore per introiettarne la determinazione estrinseca: si finisce per desiderare soltanto contro qualcosa.

Tuttavia la psicoanalisi ci insegna proprio a desiderare sciogliendo il legame che parrebbe inscindibile tra Legge e trasgressione e che farebbe sì che di fronte all’evaporazione del Padre, noi non possiamo che reclamarne un altro, o aspettare il suo ritorno, proprio come fa Telemaco. Invece vi è un concetto, che Lacan usa con parsimonia e che tuttavia è centrale per cogliere la portata politica del suo insegnamento, che è quello di «desiderio dell’analista» che ci insegna a guardare al di là di questo circolo vizioso. Non si tratta beninteso del desiderio dell’analista durante una seduta (o quanto meno, non solo), ma del desiderio che va oltre la presa dell’autorità e della trasgressione. Un desiderio che dunque non coltiva l’illusione della sua illimitatezza, che non è altro che il rovescio dell’autorità del padre, ma che non accetta nemmeno supinamente (e real-politikamente) il fatto che il limite non possa essere messo in discussione. Un desiderio che riesce a rendere operativo un simbolico e una forma di sé, senza che per questo si debba chiedere aiuto a un’autorità.

Ci rendiamo conto che un orizzonte di questo tipo è ben lontano da una progettualità politica immediata o concreta. Tuttavia ci pare imprescindibile in questo momento mettere a tema il legame sociale che sottosta a ogni progetto di trasformazione dell’esistente, che sia esso la scuola pubblica o una collettività politica. Di fronte allo sfaldamento e alla crisi delle istituzioni che hanno storicamente fatto da corpi intermedi e da mediazione tra la sfera pubblica e quella privata, tra il personale e il collettivo, bisogna resistere alla tentazione di costruire un legame sociale secondo il principio patriarcale dell’autorità che incarna in modo immaginario l’interdizione della Legge. Ma nello stesso tempo non bisogna nemmeno cedere alla tentazione di pensare che l’«evaporazione del padre» possa portare a delle soggettività liberate dalla Legge, sul modello dell’anti-Edipo. Come Alex in Paranoid Park, bisogna sciogliere il nodo gordiano che lega Legge e autorità e imparare a dare forma al nostro desiderio senza padri, ma secondo la sua propria Legge. Che non è quella dell’illimitato e della libertà da ogni vincolo, ma quella della sua determinazione interna. Che non è nient’altro che la sua vera potenza.

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