giovedì , 18 Aprile 2024

Navigando a vista. Migranti nella crisi

Navigando a vista imgdi DEVI SACCHETTO E FRANCESCA ALICE VIANELLO

Dall’Introduzione a Navigando a Vista. Migranti nella crisi economica tra lavoro e disoccupazione, a cura di Devi Sacchetto e Francesca Alice Vianello, Milano, FrancoAngeli, 2013.

I lavoratori migranti nella crisi economica

A livello mondiale, la crisi economica corrente ha inciso profondamente sulle vite degli uomini e delle donne migranti. I lavoratori migranti sono, infatti, tra i primi a essere colpiti, specialmente se sono uomini con basse qualifiche professionali e impiegati nei settori più colpiti dalla crisi, come le costruzioni e l’industria manifatturiera (Iom 2010). Nel corso degli ultimi quattro anni (2008-2012) a livello internazionale si sono registrati una flessione dell’immigrazione e solo un modesto ritorno nei paesi di origine. Come nelle recessioni del passato la mobilità dei migranti è connessa non solo alla loro situazione lavorativa nel paese di destinazione, ma anche al contesto economico e sociale del paese di origine (Castels 2009; Fullin Reyneri 2013).

Il volume esamina le ricadute della crisi economica più grave dal 1945 sulle traiettorie di lavoro e di vita dei migranti marocchini e romeni residenti in Veneto. La ricerca, pur partendo dallo stato di disoccupazione, analizza le ripercussioni della crisi economica sui percorsi lavorativi e sulle strategie messe in campo dai e dalle migranti rispetto ai processi di impoverimento. Lo stato di disoccupazione viene considerato una condizione transitoria, ma che, allo stesso tempo, contrassegna la carriera lavorativa dei migranti in quanto lavoratori precari e poveri. I risultati di questa ricerca consentono quindi sia di comprendere l’impatto della recessione su questi lavoratori migranti sia di proiettare un fascio di luce sulla vita quotidiana di un particolare gruppo di lavoratori poveri dell’Unione Europea, composto da cittadini/e comunitari e non-comunitari che sono ormai profondamente radicati in Italia, ma che al contempo agiscono in uno spazio transnazionale (Faist 2000). Le loro strategie migratorie e lavorative di fronte alla crisi sono dunque analizzate in una prospettiva transnazionale.

Il quadro complessivo che emerge dalla ricerca offre un approfondimento di tendenze già in atto, così come di cambiamenti cruciali nei percorsi di vita e di lavoro. Da un lato si assiste a un allargamento della precarietà occupazionale, abitativa ed esistenziale che già caratterizzava una parte dei migranti in Italia, dall’altro lato però si evidenziano segnali di trasformazione delle forme di sistemazione, compreso qualche ritorno nel Paese di origine, e una netta biforcazione del mercato del lavoro con l’estensione di forme di lavoro irregolare e una pronunciata istituzionalizzazione dello stesso.

Le ricadute della crisi economica sui lavoratori migranti evidenziano in particolare tre fenomeni che sembrano ormai interessare anche una parte della forza lavoro autoctona. Si tratta in primo luogo di una relativa diffusione del cosiddetto lavoratore povero; in secondo luogo dell’espansione di posti di lavoro nei quali i lavoratori e le lavoratrici svolgono mansioni generiche; infine la messa in campo di arrangiamenti quotidiani basati su un welfare state sempre più striminzito e reti di sostegno che stanno progressivamente sfaldandosi.

Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre tenere presente che a lungo la questione della disoccupazione è stata declinata e studiata come una delle dimensioni della povertà (Pugliese 1993). Tuttavia, la situazione dei migranti in Veneto più che alla disoccupazione strutturale di intere comunità, come nel caso di Marienthal (Jahoda et al. 1986), contiene alcune analogie con quanto descritto da E. W. Bakke (1933), poiché la disoccupazione è intermittente oltre che essere anche femminile[1].

L’assottigliarsi del confine tra occupazione e disoccupazione amplifica il senso di precarietà percepito ormai da ampie parti della forza lavoro, non solo quella che svolge, quasi sempre suo malgrado, occupazioni discontinue. Per i migranti questo senso di insicurezza non è certo una novità poiché molti di essi già nel paese di origine hanno sofferto di percorsi lavorativi abborracciati. Ma questo pregresso non comporta certo un’indifferenza rispetto all’attuale situazione: l’emigrazione mirava infatti anche a una sistemazione lavorativa meno incerta. Per i lavoratori migranti intervistati il passaggio a forme di lavoro salariato più istituzionalizzato, grazie all’emigrazione, non mette quindi al riparo dalla precarietà. D’altra parte, per affrontare gli elevati costi della riproduzione quotidiana i lavoratori migranti devono porre in campo un’estrema disponibilità a cogliere le diverse opportunità lavorative. Si tratta di comportamenti che lasciano scarsa possibilità alla pianificazione dei propri percorsi non solo lavorativi, ma di vita.

Il fenomeno dei lavoratori poveri è stato registrato e analizzato con maggiore attenzione negli Stati Uniti a partire dall’epoca reaganiana, mentre nei paesi dell’Ue si registrava un elevato tasso di disoccupati (Fox Piven 2004; Esping-Andersen 1999). In alcuni paesi dell’Ue, la centralità del legame tra la diffusione del lavoro temporaneo, l’erosione delle prestazioni di welfare e l’incremento dei lavoratori poveri inizia a essere più evidente a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. L’aumento della povertà fra i lavoratori dipendenti e autonomi scompone la sovrapposizione tra povertà e disoccupazione e mostra il limite degli studi sull’esclusione sociale. In modo analogo, la crescita dei working poor smentisce le mistificazioni delle teorie individualiste sulla naturale inclinazione di alcuni individui alla povertà.

Il fenomeno dei lavoratori poveri ha, inoltre, profonde ripercussioni nelle scelte familiari e rallenta i processi di mobilità sociale intergenerazionale che già erano ridotti nella cosiddetta Terza Italia. Si sono infatti allargate le distanze tra i livelli di reddito e di condizioni economiche e sono drasticamente mutate le condizioni di distribuzione della ricchezza prodotta, con un notevole impoverimento del potere d’acquisto delle retribuzioni. Non si tratta quindi tanto di considerare l’effetto in termini di politiche sociali, quanto di considerare come nel corso degli ultimi due decenni siano prepotentemente ritornati alla luce forti processi di ineguaglianza in cui l’intersezione tra classe sociale, appartenenza linguistico-culturale, status giuridico e genere è particolarmente rilevante (Lutz, Herrera Vivar, Supik 2011).

Navigando a vistaLa diffusione dei lavoratori poveri è connessa a tre fenomeni che in Italia si sono accentuati nel corso degli ultimi due decenni: la destrutturazione dei sistemi di occupazione, la crisi della sindacalizzazione e lo sfrangiamento della contrattazione collettiva. Per quanto riguarda la diffusione di contratti atipici essa provoca un’incertezza sugli introiti percepiti e abbassa il salario medio complessivo percepito durante l’intero arco della vita lavorativa. In questo contesto diminuisce anche la quota complessiva di contribuzione alla previdenza sociale che si ripercuote in quei modelli di welfare lavoristici, quale quello italiano, dove i benefici sono connessi alle contribuzioni dei lavoratori. Dal punto di vista della crisi della sindacalizzazione occorre registrare come le stesse organizzazioni sindacali sembrano aver colto solo in parte le caratteristiche delle nuove forme produttive, rispondendo a questi mutamenti in modo debole. La dispersione della produzione è stata spesso accompagnata dal tentativo di istituzionalizzare la presenza sindacale, indipendentemente dai processi di sindacalizzazione, come nel noto caso degli Enti bilaterali dell’Artigianato. In effetti, una quota significativa e crescente del mondo del lavoro viene esclusa dalla rappresentanza sindacale. Si tratta di una lontananza non colmabile con misure organizzative ma che è conseguenza del sistema complessivo delle relazioni lavorative costruitosi negli ultimi venti anni. Le organizzazioni sindacali continuano a difendere il loro ruolo che è tuttavia adeguato alle prospettive delle imprese e delle economie nazionali in competizione tra loro nei mercati globali. In effetti, privilegiare la concertazione e il confronto non conflittuale pare aver mortificato la funzione contrattuale e quindi la possibilità di contrattare collettivamente i salari e le condizioni di lavoro, fino all’accettazione della moltiplicazione contrattuale e normativa e  della libertà di licenziare e di riduzione dei salari.

La diffusione di forme contrattuali difficilmente sindacalizzabili – si pensi all’abnorme presenza in Italia dei soci di cooperativa – ha quindi sicuramente contribuito all’estensione del fenomeno dei working poor. Lo sfrangiamento della contrattazione collettiva infine è connesso sia alla forte destrutturazione delle imprese sia alla moltiplicazione delle forme contrattuali. Una parte consistente della forza lavoro è quindi coperta solamente dal primo livello di contrattazione, quella nazionale, e solo per alcuni elementi contrattuali.

In Italia, come negli altri paesi membri dell’Unione Europea, i migranti sono i lavoratori più esposti al rischio di povertà e di disoccupazione. Infatti, il reddito da lavoro percepito dalle persone nate all’estero rappresenta i due terzi di quello guadagnato dagli italiani (Istat 2011a) e il tasso di disoccupazione degli stranieri è di 4 punti percentuali più alto rispetto a quello dei cittadini italiani (12,1% rispetto a 8%) (Istat 2012). Tale vulnerabilità è dovuta principalmente al fatto che i lavoratori stranieri sono impiegati con contratti temporanei nei settori del mercato del lavoro più esposti ai cicli economici, quali le costruzioni e i servizi o in settori internazionalizzati lavorando talvolta direttamente in concorrenza con le imprese delocalizzate nei propri paesi di origine (Ambrosini, Barone 2007; Papademetriou et al. 2010). Inoltre, specialmente se non sono cittadini dell’Ue, essi godono di diritti e forme di protezione inferiori rispetto ai lavoratori nativi e sono più esposti al rischio di disoccupazione a causa della diffusione di atteggiamenti xenofobici (Allasino et al. 2004; EUMC 2006; Fleishmann, Dronkers 2010).

La condizione di lavoratore salariato è spesso considerata dai lavoratori migranti come quella più adeguata alle loro esigenze. Tuttavia, le esperienze dei lavoratori evidenziano come la disoccupazione non è vissuta con estrema paura poiché in una regione in cui le opportunità lavorative, almeno per mansioni manuali, rimangono estese è relativamente facile reperire qualche giornata di lavoro. Ne consegue, che la percezione del tempo sia assai diversa per questi disoccupati rispetto alle risultanze di ricerche effettuate nei decenni scorsi (Pugliese 1993). L’apatia non sembra avere molto spazio nelle vite di questi disoccupati (Jahoda et al. 1986), anche perché essi sono già abituati a vivere un tempo frantumato (Sue 2001). Essendo in crisi l’identità operaia, anche la centralità del tempo della fabbrica è venuta meno. Le possibilità di sbarcare il lunario grazie all’economia sommersa sono relativamente diffuse sia per le donne sia per gli uomini; perciò buona parte della giornata viene trascorsa nella ricerca di un lavoro o nello svolgimento di lavori saltuari al nero, pagati a giornata. Ma per le donne disoccupate e per un ristretto numero di uomini, il lavoro domestico continua a strutturare il tempo del quotidiano. Sono invece rari in casi in cui il tempo «liberato» dal lavoro viene riempito con attività di relazione sociale, culturale o politica.

L’articolazione delle mansioni dei lavoratori migranti presenta diverse sfaccettature ma che sono riassumibili nell’etichetta dell’«operaio comune». Se la tesi di Harry Braverman (1978) relativa alla tendenziale dequalificazione del lavoro è stata ampiamente criticata (Thompson 1983), tuttavia la sua analisi rimane importante poiché fornisce alcuni strumenti per comprendere i processi lavorativi contemporanei. In effetti, le ripercussioni della crisi sui livelli di dequalificazione del lavoro hanno determinato una riduzione della quota «degli artigiani, degli operai specializzati e degli appartenenti alle professioni qualificate, a favore delle categorie occupazionali non qualificate» (Istat 2013, p. 94). I livelli di qualificazione acquisiti dalla forza lavoro sembrano da un lato andare incontro a un processo di rapida obsolescenza (Sennett 1999) e dall’altro non essere attraenti per quelle imprese che necessitano di manodopera solo momentaneamente.

Diversamente dalle ottimistiche previsioni di quanti prevedono una diffusione del lavoro della conoscenza, i lavoratori migranti ci mostrano perlomeno una forte divaricazione delle forme del lavoro contemporaneo. Ma forse rimane ancor più significativa la condizione materiale di cui i migranti fanno quotidiana esperienza, cioè le forme di controllo e degradazione nell’ambito dei processi lavorativi (Grugolis, Lloyd 2010). Si tratta di mansioni non tanto parcellizzate e taylorizzate, quanto di una più generale diffusione di compiti che risultano relativamente semplici da imparare e che prevedono una generica disponibilità a svolgerli in tempi rapidi.

Come è stato notato, infatti, la questione della qualificazione comprende tre dimensioni: quella del lavoratore, quella del posto di lavoro e quella della costruzione sociale della qualificazione (Cockburn 1983). I lavoratori migranti sembrano relativamente indifferenti rispetto alla mansione, per quanto essi conoscano a fondo le caratteristiche di salario e in generale delle condizioni di lavoro delle differenti occupazioni. Indipendentemente dal loro livello di qualificazione essi rimangono disponibili a svolgere mansioni sotto-qualificate ben conoscendo il funzionamento del sistema di occupazione italiano. In effetti, la crisi economica sembra aver acuito l’incasellamento dei lavoratori migranti in mansioni generiche, poiché «a parità di sesso, età, ripartizione territoriale di residenza, livello di istruzione, ruolo in famiglia, settore occupazionale, regime orario, posizione e anni di esperienza lavorativa, uno straniero presenta una probabilità di trovare un’occupazione non qualificata sette volte più alta di un italiano con le stesse caratteristiche». Nel caso delle donne straniere la situazione è ancora peggiore poiché la loro probabilità «di lavorare nei segmenti occupazionali caratterizzati da bassi skill è circa nove volte superiore a quella delle italiane» (Istat 2013, p. 108).

I lavoratori migranti colpiti dalla crisi economica sembrano muoversi tra i diversi settori produttivi senza soluzione di continuità. Per alcuni aspetti sono le donne immigrate che tendono a insistere nel settore dei servizi alle persone, sebbene una parte consistente svolga mansioni anche nel settore manifatturiero e agricolo. Settori e qualifiche riservate agli immigrati costituiscono un primo livello di discriminazione che si riflette a livello salariale e di condizioni concrete di lavoro. Come già notava Laura Zanfrini (2002, p. 201): «la grandissima maggioranza degli immigrati, anche se a elevata istruzione, è avviata al lavoro come operaio generico; una quota modesta come operaio qualificato, e solo una sparuta minoranza come impiegato o a maggiore ragione dirigente».

L’attuale condizione rappresenta sovente per molti migranti un momento di deciso arretramento per chi, vivendo in Italia già da qualche anno, aveva progressivamente percorso la trafila prima del lavoro nero, poi dei contratti a termine e quindi del posto stabile[2]. I disoccupati, le disoccupate e le loro famiglie si scontrano con un stato sociale povero e con politiche sociali insufficienti a garantire una vita dignitosa a chi si trova momentaneamente senza un’occupazione. In questo scenario le strategie messe in campo dai migranti per affrontare la crisi sembrano essere di resistenza quotidiana piuttosto che di radicale ridefinizione delle proprie traiettorie di vita.  Almeno fino al 2011 i progetti sia di ritorno verso il paese di origine sia di mobilità verso altri paesi Ue erano poco consistenti tra i lavoratori migranti, mentre la maggioranza cercava di mantenere la medesima rotta di navigazione. Inoltre, nei primi anni di crisi (2009-2011) la circolarità delle migrazioni, sostenuta dalle politiche migratorie dell’Ue sembra ridursi, poiché i migranti non si possono più permettere né di lasciare il proprio impiego né di acquistare un biglietto aereo di una delle tante compagnie low cost.

Nonostante le difficoltà, gli uomini e le donne migranti non interrompono il proprio progetto di vita, per il quale hanno affrontato lo sradicamento dal contesto di origine e un processo di svalutazione che li ha portati a svolgere in Italia i lavori più duri e a basso salario. Tornare nel paese di origine o andarsene dall’Italia verso altri paesi rappresenta, infatti, una seconda rottura del proprio percorso e della propria identità sociale. Si tratta di un trasferimento ancor più complicato se in Italia vivono anche i figli. I lavoratori migranti, dunque, mettono in atto tattiche di resistenza volte a garantire non solo la propria sopravvivenza immediata, ma anche le ambizioni a lungo termine (Datta et al. 2007).

Come dimostra l’ampia letteratura relativa alle modalità per contrastare la povertà (Wallace 2002), è fondamentale tenere in considerazione le strategie familiari oltre a quelle individuali per analizzare come i migranti stanno vivendo nella crisi economica. Conoscere le dimensioni, la composizione e la distribuzione spaziale del gruppo domestico degli intervistati nonché la loro rete sociale ci consente, infatti, di comprendere, ad esempio, quante persone dipendono economicamente da loro, dove si trovano – in Italia o nel paese di origine – quali sono le altre risorse a disposizione nonché a quali circuiti di solidarietà possono accedere. In questa prospettiva si osserva che le strategie messe in campo si sviluppano contemporaneamente a livello sia locale sia transnazionale e consistono in una combinazione di risorse disponibili nella sfera familiare, comunitaria (reti sociali in cui sono inseriti) e istituzionale. I lavoratori migranti da un lato riducono le spese – limitando ad esempio l’invio di rimesse, riducendo i ritorni temporanei, limitando la mobilità, interrompendo il pagamento delle utenze e risparmiando ulteriormente sul cibo – e, dall’altro lato, cercano di reperire delle forme alternative di integrazione del reddito – contributi in denaro o in natura da parte di enti pubblici o privati, prestiti e donazioni. La rivendicazione politica di maggiori diritti sociali, per quanto socialmente invisibile, appare crescere nel corso degli ultimi anni.

Le risorse a disposizione, così come i margini d’azione, cambiano in base all’intreccio delle caratteristiche di genere, età, appartenenza linguistico-culturale e allo status giuridico dei soggetti nonché ai modelli di famiglia e alle reti sociali in cui essi sono inclusi. In particolare, il tipo di famiglia risulta essere un fattore discriminante che differenzia in modo significativo le capacità di affrontare i processi di impoverimento. Le famiglie multireddito e le famiglie allargate sembrano essere i due tipi di famiglia che dispongono di maggiori risorse economiche e sociali per resistere alla tempesta della crisi, mentre le famiglie nucleari e monoreddito sono le più vulnerabili, perché isolate e deboli economicamente. Non è un caso che oggi in Europa, come negli anni Trenta negli Stati Uniti, la crisi coincida con un innalzamento dei tassi di attività femminile, poiché il secondo reddito diventa sempre più indispensabile (Milkman 1979; Bettio et al. 2013). È dunque ipotizzabile che «grazie alla crisi» un consistente numero di donne, precedentemente inattive, conquisti una certa autonomia economica e che si diffonda ulteriormente il modello della «dual earner couple» (Blossfeld, Drobnic 2001).

[…]

Uno sguardo biografico e intersezionale

Per esaminare in che modo la recessione e la disoccupazione segnino le vite di uomini e donne migranti abbiamo ritenuto utile adottare uno sguardo biografico intersezionale. Ovvero interpretare l’esperienza della disoccupazione nel quadro più ampio della storia di vita dei soggetti, tenendo in considerazione le implicazioni delle multiple identità e diseguaglianze derivanti dall’intreccio tra genere, classe, età, colore della pelle, religione, appartenenza linguistico-culturale e status giuridico.

L’approccio biografico è un paradigma interpretativo che affonda le sue radici negli studi classici della Scuola di Chicago e in particolare nel noto studio di Thomas e Znanieki (1968). Successivamente la ricerca biografica è caduta in disuso per poi riemergere negli anni Settanta e Ottanta soprattutto in Germania e in Francia, dove sono state elaborate varie teorie e metodologie basate sulla rilevanza sociologica delle biografie individuali (Bertaux 2003; Apitzsch, Siouti 2007). In generale, i numerosi filoni teorici sono accomunati dallo studio delle interconnessioni tra aspetti individuali e istituzionali della realtà sociale. Inoltre, la prospettiva biografica si è rivelata uno strumento particolarmente importante per esplorare come gli individui percepiscono e affrontano le trasformazioni sociali, il rischio e l’incertezza, poiché permette di tenere contemporaneamente in considerazione le dimensioni soggettive, i vincoli oggettivi derivanti dal contesto socio-economico nonché gli aspetti culturali (Zinn 2010). La ricerca sociologica e antropologica ha adottato tale approccio per studiare vari fenomeni sociali: le forme con le quali gli individui affrontano l’esclusione sociale nelle sue molteplici forme (Chamberlayne, Rustin, Wengraf 2002); le strategie per contrastare l’incertezza derivante dalla mancanza di un lavoro stabile (Apitzsch 2010) o da problemi di salute (Burchardt 2010); le modalità attraverso cui la cultura influenza il modo di affrontare gli imprevisti, il pericolo e l’insicurezza (Safonova, Sántha 2010).

L’intersezionalità è invece una categoria analitica nata nell’ambito della teoria femminista per riconoscere e analizzare le differenze tra le donne. Il termine è stato coniato da Kimberlé Crenshaw (1989), in un articolo in cui l’autrice sosteneva che per comprendere l’esperienza di discriminazione e di subordinazione delle donne nere nella società statunitense fosse indispensabile analizzare l’intersezione tra genere e classe, e non limitarsi a sommare questi due assi di stratificazione sociale. Nei decenni successivi il concetto di intersezionalità è stato ripreso da numerose studiose statunitensi ed europee, le quali lo hanno sviluppato teoricamente e adottato per indagare non solo le differenze tra le donne, ma anche le diseguaglianze sociali più in generale (Lutz, Herrera Vivar, Supik 2011).

Rilevanti ai fini della nostra ricerca sono i contributi di Hans‐Joachim Bürkner (2011) e Floya Anthias (2012), in quanto evidenziano la crucialità dell’approccio intersezionale nello studio dei processi migratori. Secondo Bürkner l’approccio intersezionale fornisce un utile quadro metodologico attraverso cui indagare la natura multi-dimensionale delle diseguaglianze dei migranti, nonché la combinazione tra la dimensione strutturale e le pratiche sociali. Inoltre esso permette di adottare come categorie centrali per l’analisi il genere, l’età e il bodysm, cioè le caratteristiche e la costruzione sociale del corpo, ad esempio l’uso del velo o del turbante. Anthias, oltre a sostenere la necessità di adottare l’approccio intersezionale per analizzare l’incidenza del genere nei processi migratori, evidenzia l’efficacia di tale prospettiva per esaminare la complessità delle gerarchie in cui sono posizionati i migranti nello spazio sociale transnazionale.

Infine, l’approccio intersezionale è particolarmente fecondo per l’analisi dei significati che gli individui attribuiscono alle perdita dell’impiego e degli effetti ti tale evento sulla loro identità sociale. Uomini e donne vivono sovente in modo dissimile la disoccupazione, perché i significati connessi al lavoro retribuito sono profondamente legati all’identità di genere: mentre la mascolinità è stata storicamente costruita attorno alla sfera pubblica e alla figura del breadwinner, la femminilità è stata associata soprattutto alla sfera privata e alla maternità. Per un uomo, quindi, la perdita dell’occupazione e l’incapacità di sostenere economicamente la propria famiglia può produrre una crisi identitaria ed esistenziale particolarmente acuta, poiché viene messa in discussione la sua mascolinità. Tuttavia, per non cadere in generalizzazioni fuorvianti, è indispensabile tenere in considerazione anche l’età, la classe sociale, la cultura di genere in cui gli individui sono stati socializzati (Willot, Griffin 2004; Bereswill, Neuber 2011; Donaldson et al. 2012).

Lo sguardo biografico e intersezionale ci ha, dunque, portati ad inquadrare l’esperienza della disoccupazione e più in generale della crisi economica nell’ambito della biografia degli individui, tenendo in considerazione l’intreccio tra le specificità di genere, età, appartenenza linguistico-culturale e status giuridico. Attraverso i capitoli che compongono il volume abbiamo analizzato il contesto socio-economico locale in cui sono radicati i lavoratori e le lavoratrici migranti, le loro traiettorie di vita, i progetti migratori, le esperienze lavorative, le cause e gli effetti della perdita dell’impiego, i significati che tale esperienza assume nonché le strategie che essi mettono in atto per farvi fronte.

Nel primo capitolo Bruno Anastasia, Maruzio Gambuzza e Maurizio Rasera analizzano il contesto sociale ed economico veneto e la partecipazione della forza lavoro migrante al mercato del lavoro locale. Essi sottolineano che nonostante la crisi economica abbia incrementato il livello di incertezza e peggiorato le condizioni economiche dei lavoratori e delle lavoratrici di origine straniera, accentuando delle dinamiche, come quella di assunzioni a tempo, già in essere nel periodo precedente, a distanza di quattro anni dall’inizio della crisi i e le migranti continuino a insistere nel medesimo territorio, collezionando posti di lavoro a tempo determinato.

Vanessa Azzeruoli, nel secondo capitolo, compie un viaggio a ritroso nelle storie di vita dei e delle migranti, ricostruendo le geografie delle provenienze, i percorsi formativi e lavorativi, le motivazioni che hanno indotto alla partenza per l’Italia e le strategie individuali e famigliari perseguite. Le esperienze lavorative pregresse, le aspettative legate al titolo di studio e al tipo di progetto migratorio sono, infatti, fattori che possono influenzare in modo significativo il modo di vivere la disoccupazione e le capacità reattive dei soggetti.

Nel terzo capitolo, l’analisi di Graziano Merotto si sofferma sui percorsi lavorativi di lavoratrici e lavoratori nel periodo precedente la crisi economica. Si tratta di traiettorie sovente tortuose costellate di periodi di precarietà che tuttavia per una parte relativamente consistente erano sfociate in una stabilità occupazionale. Fanno eccezione alcune donne, soprattutto marocchine, che sovente sono entrate solo recentemente nel mercato del lavoro, magari a seguito della difficoltà occupazionali del marito. La doppia sfida in cui si trovano ora i lavoratori marocchini e romeni è quella di reperire un posto di lavoro stabile, dopo aver emigrato proprio per emanciparsi da occupazioni informali e scarsamente regolamentate.

Sulle esperienze lavorative di marocchini/e e romeni/e successive all’iscrizione al centro per l’impiego si sofferma Devi Sacchetto nel quarto capitolo. L’analisi tiene in considerazione da un lato la forte istituzionalizzazione del mercato del lavoro che richiede spesso un’intermediazione formale tra la forza lavoro e le imprese, dall’altro lato evidenzia l’incremento di occupazioni che non richiedono particolari qualifiche. Mentre le esperienze lavorative si sono ulteriormente frammentate dovendo rincorrere un sistema produttivo altalenante, i lavoratori migranti mettono in campo un insieme di attività lavorative assai diversificate inserendosi nelle pieghe del ‘nuovo’ sistema occupazionale veneto. Sacchetto sottolinea, inoltre, come il genere, la nazionalità, l’età e la religione sono elementi centrali rispetto all’esperienza di disoccupazione e alla ricerca di un nuovo impiego.

Francesca Alice Vianello, nel quinto capitolo, indaga le ripercussioni del processo di impoverimento sulla vita quotidiana dei e delle migranti, nonché le tattiche di resistenza messe in campo per superare la congiuntura economica. Per comprendere il grado di vulnerabilità degli individui nonché i margini d’azione per far fronte alla situazione problematica derivante dalla perdita dell’occupazione, lo sguardo dell’autrice non si rivolge solamente ai singoli e alle loro specificità di genere, età e nazionalità, ma comprende anche le loro famiglie – nucleari e allargate, monoreddito e multireddito, transnazionali e ricongiunte – le reti sociali, le associazioni intermedie di riferimento e i servizi sociali disponibili nel territorio in cui vivono.

Infine, il volume si conclude con il contributo di Marco Semenzin che da un lato illustra una varietà di pratiche di ritorno e di significati ad esso attribuiti, dall’altro lato evidenzia la debolezza del nesso tra crisi occupazionale e attivazione di percorsi di mobilità geografica. Infatti a fronte del peggioramento delle condizioni di lavoro e di reddito, sia lo spostamento nel territorio italiano ed europeo sia il ritorno definitivo nel paese di origine non paiono una strategia praticata. Nel contesto della crisi economica attuale, quindi, le migrazioni di ritorno non paiono essere correlate unicamente agli avvenimenti e alle condizioni economiche del paese di immigrazione ma, pur rimanendo influenzate dalla sfera economica nelle diverse aree di origine e destinazione, si intrecciano con i percorsi individuali e familiari e con la possibilità di possedere capitale sociale e relazionale di sostegno.

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[1] Per un’analisi sulla ricerca sociale sulla crisi degli anni Trenta si veda Orientale Caputo (2009).

[2]  Tipico è il caso di chi a causa della chiusura dell’azienda o della riduzione del personale passa da un contratto a tempo indeterminato al contratto interinale, oppure a termine o diventa socio di cooperativa. In merito si veda il n. 1/2013 di Mondi migranti.

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