mercoledì , 4 Dicembre 2024

Lampi di Stato. Navi, soldati e pirati nel mare globale

Lampi di Statodi VANESSA AZZERUOLI e DEVI SACCHETTO

La convenzione che permette l’imbarco di militari sulle navi italiane ha solo quattro mesi di vita e siamo già alla prima rogna, come la chiamano in gergo nelle alte sfere militari. Nella vicenda dei due marò italiani in India si giocano diverse partite: da quella internazionale nella quale l’India è protagonista da tempo, e quella interna che vede lo Stato e la polizia del Kerala in competizione con il governo centrale, a quella dell’Italia che pensa forse così, dopo il governo tecnico instaurato per placare i mercati, di ritrovare un orgoglio perduto anche attraverso il fiorire di editoriali d’altri tempi. Peccato che la rogna in oggetto sia la vita di due pescatori indiani. Costa poco la vita da quelle parti. Un armatore italiano paga giornalmente per ogni militare a bordo delle navi quasi l’equivalente del salario annuale di un pescatore indiano: 467 euro.

“A volte basteranno pochi proiettili, magari sparati in aria, a scoraggiare i pirati”, scriveva Vincenzo Nigro su Repubblica poco dopo l’accordo l’11 ottobre 2011. Lo sprezzo del ridicolo non tocca i nostri giornalisti sempre pronti a considerare i pirati come canaglie da sterminare. I quotidiani italiani, che erano entusiasti qualche mese, fa, adesso sembrano in preda all’isteria nazionalista e mostrano i muscoli: ridateci i nostri uomini. Se ce ne fosse ancora bisogno, i giornalisti televisivi italiani con la loro coccarda gialla appuntata sul petto ci ricordano di come venga costruita la verità. Certo in India sembra esista ancora la pena di morte per reati simili; ma la questione ci pare un’altra: la legge italiana (e internazionale) è uguale per tutti?

Della vicenda dei marò, le testate giornalistiche italiane hanno fatto emergere un quadro dai toni spiccatamente patriottici, dove mediante alcune sviste, sono continui i dubbi dell’avvenuta uccisione dei due pescatori (Repubblica, 05/03/2012. “Quanto accaduto lo scorso 15 febbraio, nel corso dell’incidente nel quale, secondo le autorità indiane, sono rimasti uccisi due pescatori”) o in ogni caso, l’innocenza dei nostri è sacrosantaProprio contro i periodici del bel paese si scatena l’ira delle testate indiane, accusandoli di aver assunto una mystifyingly jingoistic position, mettendo in dubbio la ricostruzione locale dei fatti e l’uccisione stessa. Anche i commenti dei lettori vengono analizzati e criticati: c’è chi si lamenta dei soldati italiani giudicati da un paese del terzo mondo, chi solamente scrive indiani con tre punti esclamativi atti a rimarcare l’insignificanza di tale paese. Gli uni e gli altri fingono di non sapere che ormai da alcuni anni è in atto il tentativo da parte delle imprese italiane di cogliere le opportunità di investimento proprio in India, e basterebbe scorrere i siti internet di alcune grandi aziende, senza scomodare la FIAT, per accorgersi del numero crescente di siti produttivi indiani. L’Italia, carretta malconcia dei mercati internazionali, prova a fare la voce grossa a quel terzo mondo che non esiste più, ammesso che sia mai esistito. E vuole un trattamento differenziato per i suoi uomini. Prima di tutto perché membri delle forze armate. Ma ancor prima perché italiani.

L’India d’altro canto non sta perdendo l’occasione per mostrare al mondo, sui corpi esanimi dei due pescatori, che nella sua area di competenza non vi sono pirati e la zona è stata “completamente bonificata”. Il Joint war committee dei Lloyd’s di Londra, cioè il principale centro assicurativo per le navi, ha infatti posto da tempo l’area indiana tra quelle infestate dai pirati, facendo lievitare il costo delle assicurazioni delle navi e quindi il prezzo del trasporto per quanti commerciano con l’India. Un vero atto di guerra contro le zone di esportazione speciale indiane penalizzate dai balzelli decisi ancora una volta nella capitale dell’ex-impero. Ma i giornali indiani mostrano anche un’estrema insofferenza rispetto all’ennesima intrusione di “stranieri”, in questo caso addetti alla sicurezza delle navi, uomini armati. Non solo per banale spirito patriottico, ma anche perché quei ruoli potrebbero essere svolti da paramilitari locali, come sottolinea The HinduLa vicenda dei marò italiani e dei pescatori indiani, tuttavia, mette in luce anche altri aspetti delle forme della globalizzazione. Nave italiana e quindi diritto italiano, dicono a gran voce gli esperti italiani. In effetti ogni nave costituisce un potenziale luogo giuridico a sé stante, sicché la diversificazione delle condizioni è la regola. Diversamente da come talvolta viene presentato, il trasporto marittimo, comprese le navi con bandiera di comodo, non è un settore senza norme. Piuttosto la moltiplicazione delle legislazioni garantisce un’ampia scelta agli armatori.

La frammentazione dello spazio globale in zone non contigue di regolazioni differenziate mostra così come sia in atto una costruzione di costellazioni di sovranità commerciali graduate. Ma il problema è che le navi si muovono in acque diverse: internazionali, nazionali. Queste diverse sovranità in conflitto sono solitamente regolate dal diritto del più forte. Basti notare le parole di Monti: “Ogni atteggiamento da parte indiana non pienamente in linea con il diritto internazionale rischierebbe di creare un pericoloso precedente”, ben consapevole del terreno fangoso della discrezionalità dell’applicabilità delle norme del diritto internazionale, senza rifiutare un tono cogente. Sennonché, tanta è la subordinazione dell’Italia nei confronti di chi considera paese più potente, quanta è l’arroganza nei confronti di chi consideria Terzo mondo. Pescatori indiani contro i marò, reparti militari specializzati.

Si dà il caso che l’India non sia esattamente un paesucolo da operetta, ma una potenza economica oltre che militare con tanto di bomba atomica. La mappa dei rapporti di forza a livello internazionale è mutata, ma l’Italia non sembra ancora averne preso atto. Non solo per il consolidamento del Brics, organizzazione che vede insieme Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa e il cui prossimo meeting avverrà proprio in India, ma anche perché non esiste più lo spauracchio comunista che poneva, anche geograficamente, l’Italia in una posizione centrale. Il nuovo baricentro del mondo si sposta sempre più verso l’Asia e il Pacifico, come suggeriscono il protagonismo indiano e cinese e l’emergente Trans-Pacific Partnership a guida statunitense. In questa nuova geografia, è inutile interpretare questa vicenda con la chiave dell’orgoglio nazionale.

Le attività piratesche che erano andate progressivamente riducendosi nel corso dei secoli sembrano essere riprese nel corso dell’ultimo ventennio o, almeno, l’enfatizzazione dei mezzi mediatici nonché delle principali organizzazioni marittime ne indicano un incremento. La pirateria è piuttosto diversificata e nella maggior parte dei casi è costituita da piccolissime organizzazioni informali, sebbene quella attualmente più nota, che opera al largo delle coste somale, sia descritta come ben strutturata e piuttosto temibile dal punto di vista della potenza di fuoco. Non pochi sono i casi di famiglie di pescatori suddivisi in piccoli gruppi, talvolta di diversa nazionalità che possono contare su una “comunità” solidale di amici e parenti nella terraferma.

In realtà le attività piratesche sono oggi estremamente variegate. Nello Stretto di Malacca indonesiani, cinesi, malesi e tailandesi assaltano le navi, con scarsi mezzi, alla ricerca di denaro e di altri beni in possesso degli equipaggi al fine di incrementare i loro magri redditi; queste azioni, sovente di breve durata, sono denunciate e registrate come un vero atto di pirateria solo sporadicamente. I gruppi più organizzati che operano nelle coste dell’Africa orientale mettono però in campo metodi e tecniche operative tecnologicamente all’avanguardia e si sottraggono non tanto con la fuga, ma appoggiandosi alle normative internazionali.

Per far fronte a questi pericoli l’economia della sicurezza si è progressivamente gonfiata in questi anni e oggi a livello mondiale essa costa agli armatori circa 3,5 milioni di dollari al giorno. Ma è indubbio che nel corso degli ultimi anni la strategia, per quanto sempre nell’ambito delle scelte militari, sia cambiata: l’imbarco di militari e contractors privati sulle navi commerciali sembra essere più efficiente e molto meno costosa di quanto messo in campo fino ad ora.

Nel corso degli ultimi dieci anni sono state dispiegate nell’area dell’Oceano indiano numerose navi militari (alleanza “Atlanta” dell’UE, “Ocean Shield” della NATO,  ma anche, in prima fila, India stessa e la Corea del Sud) che pattugliavano 2,5 milioni di miglia quadrate. L’allargamento progressivo dell’area ha fatto lievitare i costi fino ai 2 miliardi annui con scarsi risultati: gli attacchi nell’Oceano avvengono in meno di 10 minuti, e necessitano una risposta just in time non garantibile da navi che devono pattugliare uno specchio così ampio di mare.

Se i costi delle 40 o più navi da guerra erano a carico degli Stati (l’Italia spende 36 milioni di euro all’anno per un’unità navale della Marina Militare, impegnata) il ricorso a militari a bordo è a carico degli armatori che tuttavia lo considerano un costo accettabile, in particolare da quando sono aumentati i sequestri di petroliere da parte dei pirati e con essi le richieste dei riscatti per gli equipaggi.  Il costo aggiuntivo di 40-50 mila dollari a viaggio a nave è considerato quindi irrisorio rispetto ai 5-10 milioni di dollari pagati in media per il riscatto di una nave.  Il 2% di imbarcazioni commerciali naviga nell’area a rischio pirati: fin’ora ne sono state catturate ogni anno mediamente un centinaio, fino al 2011 quando la cattura di navi si è dimezzata. In poche parole, si sta passando da una strategia difensiva a largo raggio a una molto più attiva con militari a bordo. In particolare in Italia, in  virtù della legge 130 “di contrasto alla pirateria”, la Marina Militare italiana ha messo a disposizione 10 nuclei di specialisti del Battaglione San Marco, ciascuno composto da 6 unità; i militari non sono sottoposti a vincoli gerarchici con il comandante della nave, ma rispondono a un comando strettamente militare con base logistica a Gibuti composto da ufficiali italiani.

Questo è il frame in cui si inserisce il caso della Enrica Lexie, e sebbene la trasformazione dei marinai in soldati sia uno sviluppo improbabile, la sapiente opera di sovrapposizione mediatica tra pirateria e terrorismo avvenuta nel corso degli ultimi anni corre il rischio di segnare altre morti. Tolta la patina al nazionalismo italiano e indiano rimangono quindi meri interessi economici e la necessità di scaricare all’esterno dello Stato le difficoltà interne. Sarebbe facile rilevare le contraddizioni di certi commentatori dicendo che già la politica economica del governo tecnico ha poco a che fare con la sovranità nazionale, ma c’è di più. Le navi, come zone economiche speciali flottanti, godono di regimi particolari e si muovono attraverso regimi particolari, nei quali lo spazio sovrano non è già più quello immaginato dagli alfieri della patria. Al tempo stesso, scavare dentro questa vicenda mostra come lo Stato-nazione sarà anche in crisi, ma è sempre pronto a riemergere appena è utile. Che sia promuovendo le missioni per procacciare investimenti o nuove terre da conquistare a regime speciale per le imprese, o che sia attraverso l’utilizzo della più classica delle sue funzioni, la forza, questo lampeggiare dello Stato sembra rispondere così alla teoria dello Stato minimo applicata alla nuova geografia mondiale e non certo alla sua dissoluzione, come molti credono.

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